Soldi o servizi..... un falso dilemma?
Un commento ai dati regionali più recenti sull’utilizzo del "Fondo per la non autosufficienza" ed in particolare riguardo la misura B1. Queste risorse migliorano effettivamente la vita delle persone?
I numeri e i dati relativi all’andamento del "Fondo per la non autosufficienza" (FNA) in Lombardia, in particolare riguardo la misura B1 per le persone con gravissima disabilità, descrivono di anno in anno una misura di successo, crescente. Complice anche l’allargamento della platea dei beneficiari, determinata dalle scelte statali, crescono il numero delle persone con disabilità raggiunte dalle misure previste dal fondo e così come le tipologie di persone prese in carico.
Si stima che alla fine dell’anno il numero di persone che potranno beneficiare del solo contributo riservato alle persone con “gravissima disabilità” (pari a mille euro al mese) sarà superiore a quota 6mila, spingendo la Direzione Generale Politiche sociali a prevedere lo stanziamento di risorse proprie a integrazione di quelle statali, a questo punto non più sufficienti (DGR del 2 agosto 2018 n. 454). Una scelta necessaria, invitabile, per mantenere fede a quanto garantito alle persone con disabilità coinvolte e ai loro nuclei familiari. Ed è corretto parlare di successo, non solo per la consistenza dei numeri ma anche perché, è bene ricordare che questa misura offre sostegni a persone e nuclei familiari fino ad ora non raggiunti da altre misure di welfare sociale regionale.
In questo contesto è lecito e forse opportuno interrogarsi sugli esiti e sugli impatti dell’utilizzo di queste risorse nella vita delle persone con disabilità coinvolte, così come in quella dei loro familiari e anche del sistema dei servizi e della comunità sociale, in genere.
Le erogazioni monetarie migliorano la qualità di vita delle persone?
Il sistema di raccolta dati regionale, che è di tipo squisitamente quantitativo e concentrato sull’offerta, non permette, al momento, che di elaborare alcune ipotesi di lavoro e di sviluppare alcune riflessioni. Le ultime rilevazioni regionali, presentate alle associazioni di riferimento nel corso dell’estate, hanno fotografato l’andamento della misura B1 del FNA, nei primi cinque mesi del 2018. I dati, oltre a presentare il trend di crescita e di ampliamento delle tipologie di persone prese in carico (tra cui spiccano persone con autismo e con ritardo mentale oltre che con demenza), confermano come gran parte di queste risorse siano utilizzate a sostegno del lavoro di cura offerto dai familiari, in oltre il 60% delle situazioni senza alcun aiuto di carattere professionale. In gran parte (quasi la metà dei casi) si tratta di caregiver familiari appartenenti al nucleo di origine (madri, padri ma anche sorelle e fratelli), piuttosto che del proprio nucleo (quasi il 30%) e quindi del coniuge o convivente. I dati al 30 settembre 2017 della misura B2, i più recenti a disposizione, confermano una situazione analoga.
In estrema sintesi, quello che appare da questi dati, così come dalle conoscenze dirette, è che il complesso di misure previste dal FNA si traducano in una semplice erogazione monetaria, a integrazione del reddito delle famiglie che svolgono funzioni di assistenza. Una situazione che sembra incontrare il consenso delle famiglie coinvolte, che preferiscono ricevere direttamente i soldi sul conto corrente piuttosto che in forma di servizi e sostegni di altra natura. Una preferenza che potrebbe essere confermata dalla bassa adesione (circa un terzo degli aventi diritto) fino ad ora riscontrata dalla misura “integrativa” prevista a sostegno delle persone con disabilità gravissima con almeno un figlio a carico. Una misura che prevede un ulteriore sostegno pari a 500 euro mensili, ma spendibile solo in forma di voucher, ovvero con l’acquisto di servizi professionali.
Ma se e in che misura queste risorse migliorano effettivamente la qualità della vita della persona con disabilità? Quanto, per dirla con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità “consentono di vivere nella società e di inserirsi e impedire che siano isolate o vittima di segregazione”?
In molti casi, è importante sottolinearlo, il contributo interviene effettivamente a integrare il reddito di nuclei familiari poveri o comunque fortemente impoveriti proprio a causa del carico assistenziale dovuto alla presenza di un familiare con disabilità. Situazioni dove, il miglioramento delle condizioni materiali dell’intera famiglia avrà un immediato e positivo riflesso nelle condizioni di vita di tutti i suoi componenti, a partire da quelli maggiormente fragili.
Per poter comprendere cosa sia effettivamente accaduto e cosa stia continuando ad accadere sarà necessario avviare un percorso di ricerca ad hoc che preveda, tra le altre cose, di raccogliere direttamente il punto di vista delle persone con disabilità coinvolte. La Direzione Generale Politiche sociali, abitative e disabilità ha già manifestato l’interesse a raccogliere anche queste informazioni.
Nel frattempo, è importante definire correttamente il campo da gioco. Come richiamato dal titolo, la tentazione potrebbe essere quella di avviare una nuova partita tra assistenza diretta e indiretta, tra erogazione di servizi o monetaria. Una contrapposizione, a mio parere, fuori luogo perché confonde i fini con gli strumenti.
Soldi o servizi? La risposta nella valutazione multidimensionale e nel progetto individualizzato
Da quando la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, sempre all’articolo 19, ha affermato il diritto di tutte le persone con disabilità alla vita indipendente e all’inclusione sociale, è apparso abbastanza chiaro che l’equivalenza tra assistenza indiretta e vita indipendente sarebbe stata da dimenticare. A seconda delle situazioni e condizioni possiamo immaginare (e anche verificare nella realtà) come percorsi di inclusione e di esclusione possano essere realizzati dentro e fuori dai servizi, con o senza l’assistenza personale autogestita. Molto dipende dalla situazione sociale in cui si svolge la vita delle persone con disabilità, dei loro familiari, dei servizi sociali come dell’intera comunità.
Non stupisce allora che in un contesto di welfare fortemente familistico come quello italiano, in particolare se riferito alla disabilità, misure di sostegno concreto e immediato siano gradite ai familiari delle persone con disabilità. Appare naturale quindi che la Valutazione Multidimensionale sia stata limitata a strumento certificatorio per verificare o meno le effettive condizioni di gravità della persona e quindi il diritto di poter ricevere il contributo previsto: sempre in questo contesto, la definizione del progetto individuale di assistenza diviene un adempimento di natura amministrativa, una sorta di sintesi degli interventi svolti. Peccato che, proprio in questo contesto le situazioni di dipendenza e di isolamento sociale non potranno che rafforzarsi e stabilizzarsi, generando un costante incremento di nuovi bisogni e quindi di ulteriori interventi.
Una prospettiva di evoluzione, non potrà che passare da un deciso rafforzamento dei servizi e degli operatori chiamati a sostenere i processi di emancipazione delle persone con disabilità: dal passaggio della Valutazione multidimensionale da strumento di verifica dei requisiti di accesso a opportunità di consapevolezza della propria situazione esistenziale, personale, familiare e sociale. Dal dedicare tempo e energie all’emersione, a fianco dei bisogni, anche degli specifici desideri e preferenze delle persone con disabilità; dal pensare alla definizione e stesura di un progetto globale di intervento come a una opportunità di orientare tutte le risorse disponibili e attivabili, non solo alla cura e assistenza della persona ma, anche attraverso la cura e l’assistenza, alla realizzazione dei suoi specifici obiettivi di vita.
Percorsi e programmi che, a questo punto, potranno prendere la forma dell’intervento diretto o indiretto, professionale o informale o familiare, pubblico o provato “solo” in base alla convenienza della persona con disabilità, misurata non certo su parametri economici ma di raggiungimento di obiettivi di qualità della vita, di indipendenza e di inclusione sociale.
Solo un sistema di servizi e operatori adeguato, in termini di risorse e competenze, potrà garantire alla persona con disabilità così come alla sua famiglia la stessa sicurezza oggi offerta da un solido e concreto assegno mensile di mille euro.
Una sfida che oggi il sistema dei servizi e una buona parte degli operatori sembrano in grado di comprendere, di assumere e magari anche di vincere, solo se messi nella condizione di farlo.
Giovanni Merlo, direttore LEDHA
Articolo pubblicato precedentemente su "LombardiaSociale"