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A cura di Ledha

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20 Novembre 2017

DSA, le diagnosi non sono un punto di arrivo. Ma un punto di partenza per sviluppare competenze

di Filippo Barbera

Filippo Barbera, maestro di scuola primaria e dislessico, entra nel dibattito sul tema dei disturbi specifici dell'apprendimento.

Egregio dottor Novara,

mi chiamo Filippo Barbera e credo nella didattica.

Non sono un pedagogista, sono un semplice maestro di scuola primaria.
In realtà, non così “semplice”, perché nel mio curriculum vitae compaiono dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia.. quattro di quelle caratteristiche che lei, nel corso del suo intervento del 29 ottobre su Rai Uno, ha definito “malattie mentali”: non male, vero?

A scuola, con i miei alunni, facciamo spesso l'analisi degli errori partendo da due certezze: la prima è che gli errori si commettono, la seconda è che gli errori ci aiutano a migliorare. L’errore è un grande maestro, uno stimolo per perfezionarci: dagli errori si impara sempre qualcosa e noi, a scuola, con il tempo, abbiamo imparato a condividerli.

Io credo che lei, durante la trasmissione menzionata, abbia commesso un errore definendo, senza mezzi termini, i DSA “malattie mentali”, giustificandosi in seguito col dire che “malattia mentale” era solo un’iperbole ironica per far capire l’assurdità della situazione. Questo è inaccettabile. Non ci si può nascondere dietro la definizione di una figura retorica. Perché le parole hanno il loro significato, le parole fanno cose, le parole creano il mondo.
E lei con le sue, ha fatto proliferare messaggi fuorvianti, in alcuni casi anche offensivi per quelle persone che così li hanno interpretati: e questo, mi permetta, già di per sé è significativo.

Quando studiavo all'università mi hanno insegnato che la pedagogia è una scienza; il pedagogo “uno schiavo” che accompagnava il bambino a scuola. Di conseguenza il pedagogista dovrebbe servire: il che, nella sua duplice accezione, significa essere al servizio ed essere utile! Io ci ho provato. Ho guardato e riguardato quel servizio su RAI 1, ma non sono proprio riuscito a vederci né un'utilità né un servizio per i bambini. Quella ricerca della frase d'effetto e quella provocazione, così inutile e quanto dannosa, non riesco a paragonarle a quelle fatte da Montessori o don Milani.

Quando si fa ricorso a eccessive semplificazioni, si rischia di cadere nella banalità. Soprattutto se si affronta un argomento complesso e delicato, che coinvolge direttamente i bambini e le loro famiglie, bisogna fare molta attenzione alle parole. Se la sua intenzione era di dire che “dobbiamo iniziare a guardare le risorse dei nostri figli e non le etichette diagnostiche”, poteva dirlo senza iperbole... se proprio voleva una figura retorica poteva buttarsi sulle metafore o sulle similitudini.
Il mio non le sembra un discorso sensato?

Io sono un idealista e mi piacerebbe che anche gli adulti facessero come i bambini.
“Chiedo scusa! Ho sbagliato.. ho riflettuto sull'errore e ho imparato tantissimo”.
A questo punto, se fosse una mia lezione, avrei detto: “Non ho.. ma abbiamo imparato tantissimo! toccando con mano la potenza delle parole e ripassando le figure retoriche!”

Torniamo a riflettere sui DSA; su questo “problema” di aumento delle diagnosi e delle certificazioni, lasciamo stare i dati e chiediamoci piuttosto se sia effettivamente un problema. Siamo veramente sicuri che il problema siano le diagnosi? Personalmente ritengo che grazie alla Legge 170/2010, la scuola abbia compiuto un passo in avanti e proprio ora la si vuole fermare e farla indietreggiare. Cui prodest? Il punto non sono i DSA o la Legge 170, perché chi lavora nella scuola sa benissimo che tutte le forme di personalizzazione erano possibili anche prima di questa legge.

Chi si occupa quotidianamente di dislessia con competenza e senza scopo di lucro sa benissimo che le diagnosi non sono il punto di arrivo, ma quello di partenza sul quale lavorare per sviluppare o potenziare competenze e abilità di un alunno. Per queste persone, come per moltissime famiglie, la diagnosi non è uno strumento per regalare la promozione o per giustificare una difficoltà scolastica, ma uno stimolo per andare alla ricerca di nuove strategie che non sono necessariamente il computer, la sintesi vocale o la calcolatrice. Deve essere chiaro che il contributo del clinico non sta nelle etichette, ma nel fornire un ulteriore punto di vista e indicare aree su cui intervenire.

I problemi veri nascono quando la scuola delega ad esterni scelte che potrebbe compiere da sola. Gli insegnanti possono fare molto, ma per fare la differenza serve il contributo di tutti: del bambino, della famiglia, della scuola, della sanità e della società. Ognuno con le proprie competenze e responsabilità.

Smettiamola di riesumare lo spettro della “medicalizzazione”, di attaccare la Legge 170 e i Disturbi specifici di apprendimento (DSA), costruiamo insieme una scuola che possa ora più che mai sviluppare le potenzialità di ciascuno, sfruttando quello che i DSA ci insegnano, ovvero di andare alla ricerca di nuovi strumenti, metodi e strategie.

La saluto cordialmente,
Filippo Barbera

 

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