Mi dispiace, ma siete andati fuori tema ...
Perché sono radicalmente contrario alle ragioni del ricorso e alla sentenze del TAR che impone l'obbligo degli educatori di formazione sanitaria nei Centri diurni disabili.
Il 5 marzo 2015 la Quarta Sezione del TAR Lombardia ha accolto il ricorso presentato dall'associazione “Senza Limiti” che chiedeva l'annullamento del bando di gara per l'affidamento dei servizi presso il Centro Diurno Disabili, promosso dall'Associazione Speciale Consortile "Insieme per il Sociale", costituita dai Comunidi Cinisello Balsamo, Cusano Milanino, Cormano e Bresso. Motivo del ricorso la richiesta nel bando, per le figura del Coordinatore e dell'Educatore del diploma di Laurea in Scienze dell'Educazione e del diploma Triennale di Educatore Professionale. Il ricorso richiedeva invece come requisito essenziale, il possesso del titolo di Educatore Professionale rilasciato dalle Facoltà di Medicina e Chirurgia (ed DM 520/98, con laurea SNT2).
Ho letto il ricorso promosso dall'associazione "Senza Limiti", la sentenza del TAR e il precedente parere del Difensore Civico della Regione Lombardia. Con argomentazioni molto simili queste tre realtà affermano più o meno lo stesso concetto. Il Centro Diurno Disabili (CDD) è una struttura sociosanitaria finanziata in prevalenza dal fondo sanitario regionale. La condizione per poter essere utenti dei CDD è di essere persone con disabilità grave e gravissima, bisognosi quindi di particolari cure e attenzioni di carattere sanitario. Il coordinatore e gli educatori che lavorano nei CDD devono avere una formazione di base prevalentemete sanitaria e non sociale e umanistica, altrimenti il loro lavoro risulterebbe inefficace o anzi pericoloso per la salute dei loro utenti.
Il resto delle argomentazioni e dei richiami normativi ruota intorno a questi tre concetti così chiari e così semplici da apparire convincenti. Tanto è vero che le prime reazioni "da corridoio" non riguardano tanto il merito ma le conseguenze derivanti dall'applicazione di questa sentenza del TAR: che fine faranno gli educatori che oggi lavorano nei CDD e che dovranno far posto agli educatori "sanitari"? E dove troveremo tutti questi educatori "sanitari" per far funzionare i CDD, dato che gran parte degli educatori laureati proviene dai corsi di carattere educativo e sociale?
Dubbi e domande legittime ma che credo sia inopportuno o comunque prematuro porsi. Prima di tutto è importante verificare pubblicamente il consenso attorno alle affermazioni contenute in questi pronunciamenti.
Non si tratta di mettere in discussione le intenzioni dei ricorrenti né quelle del Difensore Civico o dei giudici del TAR. Traspare dietro le parole scritte negli atti la (buona) volontà di garantire alle persone con disabilità il trattamento e la cura adeguata alle loro condizioni. Questo è il punto. Siamo certi che l'adeguatezza degli interventi dei CDD sia da collegarsi al sapere sanitario?
Nel ricorso presentato dall'associazione “Senza Limiti” viene più volte citata la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che costituisce la più recente e più autorevole norma nel campo della disabilità. Ebbene proprio la Convenzione traccia il percorso e la mission dei servizi destinati alle persone con disabilità, attraverso le prescrizioni dell'articolo 19 che ha come titolo Vita indipendente e inclusione nella società. Una prescrizione "non certo particolarmente sanitaria" che la Convenzione precisa deve essere considerata un diritto di tutte le persone con disabilità. Questo è l'unico passaggio in cui si precisa, ovvero non viene dato per scontato, che un diritto come quello dell'essere inclusi nella società con le stesse opportunità degli altri, debba essere riconosciute a tutte le persone con disabilità, indipendentemente quindi dalla tipologia di menomazione e dalla sua "gravità". In questo contesto non deve stupire che, al punto 2, l'articolo 19 individui l'accesso ai servizi come un diritto ma vincolato all'obiettivo di "consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione".
Questo, e non altro, è il punto da cui avviare qualsiasi riflessione sui profili degli operatori che devono lavorare nei Centri Diurni. L'intero impianto della Convenzione, a partire dalla stessa definizione di disabilità, smentisce chi afferma che esistano persone con disabilità così "gravi" da poter essere solo curate.
Non è un caso che la critica al sistema regionale lombardo nei confronti delle Unità di Offerta rivolte alle persone con disabilità non si sia mai concentrato sul grado di preparazione degli operatori dei servizi: le riflessioni (vedi ad esempio Gori 2010 o Medeghini 2013) vertono invece sulla eccessiva sanitarizzazione di queste strutture che le incoraggiano ad essere dei dignitosi cronicari dove le persone con disabilità vengono ben curate e ben assistite per l'intera durata della loro vita giovane e adulta piuttosto che uno strumento di emancipazione e di promozione dei diritti e della qualità della vita delle persone con disabilità. Un'assistenza che può prolungarsi per un periodo che può arrivare anche a 40 anni di permanenza nei CDD, senza alcun realistico sbocco nella vita sociale e comunitaria.
Alcune affermazioni presenti nei documenti esaminati vale la pena di essere riprese:
Il Difensore Civico Regionale della Lombardia afferma, nel suo parere del 2 ottobre 2013, che "credo non debbano esservi dubbi sul fatto che il soggetto autistico abbia necessità di cure sanitarie". Come movimento associativo dobbiamo chiedere scusa a tutte le persone con disabilità e in particolare alle persone con autismo, di non esserci accorti della pubblicazione di questo parere e di non averlo contrastato con forza. Quello che colpisce è la semplicità con cui questo concetto viene espresso, dato per scontato. Sei autistico? Allora hai bisogno di cure sanitarie!
Si tratta di un'affermazione, di una equazione semplicemente falsa e quindi estremamente pericolosa. In primo luogo non esiste un "soggetto autistico" ma tante diverse persone, di età e condizione diversa e, scusatemi l'espressione, con "diversi autismi". L'unico fatto che le accomuna è certamente il diritto a avere accesso, nei tempi e nei modi opportuni, a percorsi riabilitativi e abilitativi finalizzati con l'insieme di attività educative, formative e sociali alla migliore qualità della vita e alla "Vita Indipendente e Inclusione nella società" così come prescritto dall'articolo 19 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
Il parere del Difensore Civico si basa quindi su una affermazione falsa che inficia tutti i successivi ragionamenti che invece portano alla conclusione che essendo il "soggetto autistico" (sic) bisognoso di cure sanitarie non potrà che essere trattato da personale sanitario, educatori compresi.
Passiamo ora al ricorso presentato dall'Associazione Senza Limiti. In apertura (pagina 3) evidenziata in grassetto, troviamo la seguente affermazione: "Evidenti appaiono infatti i potenziali gravissimi danni che persone non adeguate e non competenti potrebbero arrecare nel rapportarsi a soggetti gravemente compromessi".
Anche in questo caso, colpisce come una affermazione così perentoria non venga in alcun modo giustificata: viene semplicemente definita come "evidente". Evidente a chi? In base a quali argomenti, tesi, dati, informazioni, ricerche? Non viene specificato. Il fatto che da ormai decine di anni alcune migliaia di persone con disabilità frequentino centri diurni, prima chiamati CSE e ora CDD, senza che ci sia notizia di questi gravissimi danni causati dall'imperizia degli educatori che lì vi lavorano, non sembra scalfire questa granitica evidenza. Ma non è, ancora una volta, questo il punto.
Ci troviamo sempre di fronte a un'affermazione che non trova alcuna giustificazione né in ambito normativo né in quello culturale e scientifico, anche se purtroppo gode di un vasto consenso popolare. Si esprime, in modo certo raffinato, che non sia possibile per le persone comuni vivere insieme "a quelle persone", cioè i "disabili gravi", ma che per relazionarsi con loro ci vogliano motivazione ("io non ce la farei!") e competenze specifiche in ambito appunto sanitario. Una pietra tombale sul diritto all'inclusione sociale: come è possibile includere chi, per definizione, debba essere trattato da professionisti specializzati? Quale posto nella società possiamo immaginare per persone così "compromesse" (sic!) da poter essere subire "gravissimi danni" dalla semplice relazione con persone senza una specifica preparazione sanitaria?
Anche in questo caso tutto il ragionamento giuridico che occupa le successiva 31 pagine del ricorso risulta non corretto e non rispettoso dei diritti delle persone che vorrebbe difendere, perché si basa su un assunto non dimostrato perché semplicemente non dimostrabile.
Arriviamo infine alla sentenza del TAR che ovviamente si basa sul ricorso, confermandone le tesi: in particolare afferma che "le attività demandate al coordinatore e all'educatore, in base alla lex specialis, comprendono esplicitamente prestazioni di contenuto sanitario". La "lex specialis" che definisce il funzionamento dei Centri Diurni Disabili (CDD) in Lombardia è la Delibera di Giunta Regionale 7/18333 del 23 luglio 2004. Una DGR che, come abbiamo visto, è già stata valutata come eccessivamente "sanitarizzante" servizi che hanno sempre avuto, sin dalla loro nascita negli anni Ottanta, una forte vocazione sociale e territoriale. Nonostante questa critica la lettura della Delibera, in nessun passaggio evidenzia il primato assoluto del trattamento sanitario rispetto a altri ambiti interventi. La stessa "classificazione degli utenti" avviene per "bisogni assistenziali, educativi, riabilitativi e sanitari". Il personale la cui presenza è definita come obbligatoria deve appartenere alle "aree socio assistenziale, educativa, riabilitativa e infermieristica." Attenzione: saranno le singole strutture a valutare le percentuali "più consone alle esigenze assistenziali degli ospiti, a cui può concorrere anche il personale medico e psicologico". Almeno il 50 % dei "minuti di assistenza" deve essere assicurato da "figure professionali appartenenti all'area educativa, all'area riabilitativa e all'area infermieristica". In questo contesto il progetto individualizzato dovrà avere un carattere "riabilitativo/abilitativo e di socializzazione per ogni ospite". Ho messo in grassetto la parola "ogni" perché richiama la parola "tutte" dell'articolo 19 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
Come si è detto la DGR 18333 è stata ampiamente criticata per il suo carattere profondamente sanitarizzante una serie di interventi che fino ad allora avevano avuto un carattere fortemente socio educativo. Un processo di sanitarizzazione evidente nella previsione di numerose figure sanitarie, fino ad allora non sempre presenti nei Centri, quali l'infermiere, il terapista della riabilitazione, il medico e lo psicologo: in nessuna parte della DGR si fa riferimento ad un orientamento sanitario del personale educativo e non viene comunque mai messa in discussione la funzione "socializzante" del CDD. Anche in questo caso una affermazione non giustificata, determina un ragionamento giuridico che deforma la realtà e non la rispetta o la interpreta.
Arriviamo quindi alla conclusione di questo mio sfogo. Perché sono radicalmente contrario alle ragioni dei ricorsi e dei pronunciamenti prima del Difensore Civico e poi del TAR?
Perché si tratta motivazioni che, se dovessero essere confermate, tendono a cristallizzare la condizione di segregazione di cui sono vittime migliaia di persone con disabilità nella nostra Regione. Persone per cui abbiamo deciso, collettivamente ma senza chiedere il loro parere, che l'unico posto dove possono vivere sia un Centro Diurno prima e una Residenza Sanitaria poi.
Non si tratta di negare le esigenze anche sanitarie che le persone con disabilità possono avere. Non si tratta di negare che è fondamentale che gli operatori sociali che progettano per e con le persone con disabilità abbiano una conoscenza anche profonda delle condizioni di salute delle persone loro affidate. Ma ridurre il tutto di una persona ai suoi problemi di salute, più o meno connessi alla sua menomazione, è una grave violazione dei diritti umani che non possiamo più tollerare. Credo sia nostro compito affermare che qualunque siano le condizioni di una persona con disabilità questa abbia il diritto di poter vivere con e come gli altri cittadini, anche a costo di modificare norme, abitudini credenze del modo di vivere della società attuale.
Questo deve essere l'obiettivo a cui deve tendere anche il lavoro dei servizi sociali e di quelli sociosanitari che si rivolgono alle persone con disabilità. E non sarà certo qualche ora di corso di base di carattere sanitario a darci garanzia che questo compito possa essere assunto e svolto anche dagli educatori che lavorano nei CDD.
Quello che dobbiamo contrastare è l'antica ma sempre presente e forte equivalenza che fa di una persona con disabilità un malato cronico, le cui uniche rivendicazioni accettabili siano quelle di avere maggiore ore di cura e di assistenza.
Quello che vogliamo sostenere è il diritto di tutte le persone con disabilità certamente a essere curate, sicuramente ad avere accesso a tutti i trattamenti riabilitativi necessari ma prima di tutto a vivere nella società con gli stessi diritti e le stesse opportunità degli altri. Libere di vivere come tutti.