"Il nostro cammino non si arresti"
L'intervento della presidente di LEDHA al convegno "Il volto degli invisibili: l'umano", in memoria di Franco Bomprezzi.
Un grazie sincero agli organizzatori per aver invitato LEDHA/FISH a questo seminario, ed io, che dopo il nostro grande Franco ne ho assunto la Presidenza sono oggi dispiaciuta per l’impossibilità di incrociare lo sguardo con il nostro Presidente Nazionale Vincenzo Falabella. Vincenzo ha condiviso con Franco Bomprezzi passioni, vittorie e sconfitte. Molte delle persone che oggi sono state chiamate a parlare sono persone che conosco da anni e con le quali sto compiendo quel lungo cammino che, ne sono convinta, porterà le Comunità a costruire il proprio sviluppo a partire dalle differenze e dalle fragilità che le popolano e le costituiscono.
Un cammino interminabile, perché interminabili sono le mete di progresso che l’Umanità ha il diritto e il coraggio di assumere come proprio futuro. Un cammino, al contempo, affatto scontato, che potrebbe rallentare o addirittura farci retrocedere e farci rivivere trattamenti e iniquità ben peggiori di quelli che ancora le persone con disabilità del nostro Paese subiscono quotidianamente.
Per evitare retrocessioni, abbiamo bisogno di tutto ciò che può irrobustire le nostre ragioni e renderci più bravi, esperti e incisivi nel nostro “lavoro”. Da questo punto di vista credo non sia tempo perso condividere tra noi due concetti fondativi dell’approccio basato sui diritti umani, e che pochi giorni fa ho avuto modo di riproporre in una analoga iniziativa, proprio qui a Milano, dedicata al rapporto tra Libertà e Disabilità:
- il primo è che i diritti umani sono per loro natura incomprimibili e indivisibili. Non possono valere per qualcuno e per qualcun altro valere di meno. Se è così, vuol dire che siamo in presenza di privilegi;
- il secondo concetto è che i diritti umani valgono sia per chi ne è consapevole sia per chi non lo è. Questo significa che anche di fronte alla disabilità complessa non possiamo accettare l’idea che, per effetto delle difficoltà nella relazione con la persona, possiamo considerare accettabile un’attenuazione dei diritti umani. Anzi, sono proprio le difficoltà e le complessità del funzionamento di alcune persone che ci dovrebbero portare naturalmente ad adottare con maggiore convinzione l’approccio basato sui diritti umani.
Due concetti che, se mi permettete per un attimo di indossare i panni di Vice Presidente di Anffas Nazionale, rappresentano, per chi opera nella disabilità intellettiva, non solo concetti fondativi del nostro agire, ma pre-condizione per valutare la bontà o meno di iniziative, programmi, progetti, misure e norme. Le persone con disabilità intellettiva rappresentano infatti bene “il mondo degli invisibili” in cui ancora vivono le persone con disabilità, con tutto il carico di difficoltà ad interpretare, comprendere, relazionarsi che spesso queste persone esprimono. Difficoltà che hanno costituito e tutt’ora costituiscono “alibi” per rendere invisibili il loro diritto ad amare, il loro diritto a decidere, il loro diritto ad esprimere preferenze. Una invisibilità che ha leso e lede il diritto ad essere liberi di rifiutare, di accusare, di decidere, liberi dall’ignoranza, dai pregiudizi, dalle incurie, dalle molestie. Per tutto ciò, e non certo per spirito corporativo, sono convinta che è proprio in questi contesti esistenziali e materiali che possiamo rilevare tutta la distanza che ancora dobbiamo percorrere come Comunità.
Detto questo, e tornando al fatto che oggi molte delle cose dette da chi mi ha preceduto sono “le cose” che da anni ci diciamo e proponiamo, non mi resta che proporre le due riflessioni a cui ho pensato. La prima è in relazione alla mia percezione di questa fase storica, resa ancor più complessa dai pesi di una crisi economica, di un crescente condizionamento dei sentimenti della paura, dello sconcerto e della mancanza di fiducia nelle Istituzioni. La seconda è in relazione al modo che le Associazioni dovrebbero adottare per rendere il nostro cammino più sicuro e veloce.
La prima riflessione rimane nel solco di quanto detto all’inizio di questo intervento, e cioè la necessità di estinguere il rischio che il nostro cammino, così ben narrato da Franco, non si arresti. Ho l’impressione che la fase che stiamo vivendo sia delicata e cruciale, perché attraversata da due processi contrapposti.
Il primo è un processo positivo, di cambiamento e innovazione, rappresentato sia da elementi istituzionali di rilievo (cito i due più importanti: la ratifica della Convenzione ONU e il conseguente programma di azione biennale) , che da elementi sociali, culturali e professionali che provengono dalla Società. In particolare, su questi ultimi, devo confessare il mio stupore – in positivo - nello scoprire come i temi dell’inclusione sociale siano diventati molto presto e in modo molto esteso elementi concreti di un agire sociale e professionale che sta arricchendo e innovando sia il panorama dei servizi alla persona che i mille fronti dell’impegno sociale e culturale delle Comunità. Si tratta di una galassia di piccole e grandi esperienze che hanno raccolto e ben interpretato la sfida dell’inclusione e l’hanno messa alla prova in progettualità in cui la disabilità non viene più considerata nei suoi aspetti della riabilitazione e della solidarietà, ma come elemento emblematico per l’incremento dei processi di coesione sociale. Sempre di più, quindi, incontriamo esperienze di civismo, educazione e tutela ambientale, lotta all’illegalità, progetti per l’ampliamento della partecipazione dei cittadini, esperienze di welfare comunitario che vedono la partecipazione fisica di persone con disabilità, che vedono partecipare le organizzazioni della disabilità in qualità di co-progettisti, che vedono molte realtà che nulla hanno a che spartire con la disabilità che accettano volentieri di avere come compagni di viaggio persone ed organizzazioni che nascono e operano nella disabilità. Mille fronti che, dicevo, hanno iniziato a condizionare e mettere alla prova anche il sistema dei servizi alla persona. Cito, per comodità, la ricerca/azione triennale condotta da tutti gli enti gestori a marchio ANFFAS della Lombardia che ha prodotto uno strumento per “misurare” il tasso inclusivo dei servizi da essi gestiti, propedeutico quindi a ripensare il proprio funzionamento in chiave inclusiva;
Esiste però anche un processo involutivo, insidioso e con tratti anche violenti, anch’esso, come l’antagonista positivo, riscontrabile a due livelli: istituzionale e sociale. A livello istituzionale rilevo ancora forte la presenza del cosiddetto “modello medico”, come dimostra la bozza di revisione dei LEA pubblicata poche settimane fa dal Ministero della Salute. Un Ministero che sembra totalmente ignaro di quanto elaborato e prodotto dal vicino Ministero delle Politiche Sociali in cui è incardinato l’Osservatorio sulla condizione delle persone con disabilità e che sta guidando i lavori relativi al programma biennale. Due linguaggi, impostazioni e mete differenti, dove, nel documento del Ministero della Salute, non si rileva la benchè minima traccia del modello bio-psico-sociale di cui il nostro movimento è divenuto portatore. C’è davvero da chiedersi come sia possibile tutto ciò, a fronte, peraltro, di rinnovati e reiterati richiami e proclami alla necessità di integrare le politiche, le azioni, gli strumenti e le risorse. Non minore preoccupazione viene dalla Comunità, dalle continue, e spesso ignorate violazioni dei diritti umani delle persone private della loro dignità, vessate, derise o peggio, maltrattate e violate.
La seconda riflessione. In questo contesto, noi Associazioni, come stiamo operando? Riteniamo si debba modificare qualcosa – o tutto, o niente – nei nostri “stili” di lavoro? Per brevità, mi limito ad evidenziare un solo elemento, rappresentato dal “nostro” nulla su di noi senza di noi.
Questo elemento rappresenta molto di più del concetto di partecipazione alle scelte che noi rivendichiamo nei confronti dei decisori pubblici. E’ un elemento che deve rappresentare anche per noi Associazioni un concreto impegno verso l’ampliamento della partecipazione al nostro agire.
Ciò su cui credo dobbiamo ancora investire molto è come incrementare la nostra capacità di raccontare le persone, portare le loro storie, le loro aspirazioni e i loro limiti nella vita delle Comunità tentando proprio di uscire dai nostri circuiti chiusi. Quando dico “raccontare le persone” non mi riferisco solo alla nostra capacità di fare comunicazione, ma alla necessità di cambiare in profondità aspetti e momenti importanti nella vita delle persone con disabilità.
Franco è stato uno dei pochi giornalisti che ha lavorato nel mondo della comunicazione rivolgendosi a tutti, non solo agli addetti ai lavori. Anche nel mondo della comunicazione c’è ancora parecchia strada da fare: troppo spesso il tema della disabilità viene trattato in modo distorto, quando si verificano eventi tragici o episodi di discriminazione clamorosi. Manca il racconto della normalità e della quotidianità. Le Associazioni come prima dicevo, hanno svolto un grande ruolo nel fare cultura attorno al tema della disabilità, ma questo compito non spetta solo a loro, tocca alla comunità intera, tocca al mondo dei media, dell’informazione e della comunicazione.
In tutto ciò, assumono centralità le figure come quella di Franco, che è stato capace di descrivere molto bene due cose:
- la quotidianità delle persone con disabilità
- la quotidiana disfunzione del sistema istituzionale
riconducendo il tutto al valore supremo della dignità della persona, e quindi ai caldi, appassionati ed ugualitari valori della nostra Carta Costituzionale, di cui Franco è stato magnifico narratore.