Autodeterminazione
"Davvero è possibile parlare di libertà di scelta anche quando tutto sembra giocarsi in termini di assistenza?” Antonio Bianchi, Coordinamento Bergamasco per l’Integrazione e Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa...
Progetto di vita, a partire dai vuoti
In Val Cavallina, tre anni fa, in una sua relazione a proposito del progetto di vita, Ivo Lizzola aveva parlato dell'importanza dei vuoti, dello spazio lasciato all'altro perché potesse scegliere se occuparlo e come, con i suoi tempi, con le sue esplorazioni, con i suoi contenuti. Passi dell'altro da riconoscere e rispecchiare, come fanno gli amici, aveva detto. In un movimento reciproco. Ciascuno si confronta col suo progetto di vita, insieme agli altri.
A Milano, la settimana scorsa, durante gli incontri di valutazione formativa dentro il Centro sovrazonale di comunicazione aumentativa, ho pensato ai vuoti lasciati, all'assenza di spiegazioni, all'attesa, senza esortazioni, senza condizioni, senza pretesa. Spazio vuoto regalato, a volte dentro una certa fatica, ci si è confessato. I bambini trovano spazio di espressione, occupando quello spazio vuoto. Un regalo molto bello, per i bambini, per i genitori, per gli operatori, per tutti.
Dentro la convenzione, la scelta, il protagonismo
Questa attenzione al protagonismo, alla scelta, è forte nella convenzione Onu dei diritti delle persone con disabilità, enunciata e declinata nelle diverse dimensioni della vita: la partecipazione scolastica e sociale, il lavoro, gli affetti e la sessualità, l'abitare, il muoversi. Non si tratta solo di poter rispondere a scelte predeterminate da altri, dentro un angusto esprimere sì o no.
Questo scegliere, questa autodeterminazione, è uscita anche come elemento di confronto dentro il Coordinamento bergamasco per l'integrazione, nella discussione intorno alle proposte di legge sul possibile prepensionamento dei familiari di persone con disabilità con più alto bisogno di supporto. Davvero è possibile parlare di libertà, di scelta, di autodeterminazione anche quando tutto sembra giocarsi in termini di assistenza? Questa era la domanda con cui ci si confrontava e l'attardarsi sul rispetto della libertà delle persone con disabilità sembrava ad alcuni una perdita di tempo.
Anche per chi non ha parola
Parlando, confrontandomi, anche con altre persone, come ci capita di fare come esseri umani che comunicano con altri, sento di un convegno sull'autodeterminazione dei minori in contesti sanitari, tenutosi due anni fa. Dentro questo contenitore c'era anche una relazione che riguardava i ragazzi che "non possono parlare". Molto interessante, ho pensato. Ho richiesto questa relazione e mi è stata gentilmente messa a disposizione dall'autrice, Caterina Dall'Olmo, neuropsichiatra presso la UONPIA di Verdello. Di questa relazione, che si trova dentro il libro "Prima dei 18 anni. L'autonomia decisionale del minore in ambito sanitario", Franco Angeli editore, mi sembra particolarmente interessante condividere questa pagina iniziale:
Quando si incontra un giovane adulto con una disabilità grave associata a un importante disturbo della comunicazione, difficilmente ci si aspetta che possa in qualche modo essergli riconosciuta una competenza decisionale e che lui stesso la possa esprimere senza usare la voce.
È il termine stesso "voce" a essere evocativo di situazioni che solitamente non si attribuiscono al grave disabile con disturbi della comunicazione: "fare la voce grossa" (che richiama l'autorità ma anche la minaccia), "a gran voce" (gridando con clamore), ma anche "parlare con libera voce" (libertà di opinione), "avere voce in capitolo" (essere ascoltato).
Di fronte a condizioni di vita così difficili, la spontanea tendenza ad assumere atteggiamenti protettivi, quando non addirittura assistenzialistici, rischia di negare l'opportunità a questi soggetti di poter compiere scelte che riguardano la loro vita e la loro salute.
Di fatto questi ragazzi hanno quasi sempre e soltanto vissuto l'esperienza di interlocutori adulti che, nell'enorme fatica di dare significato a segnali comunicativi non usuali, non codificati o condivisi, ne hanno interpretano i bisogni, con attribuzioni anche arbitrarie, nella consuetudine di sostituirsi a loro anche nelle decisioni più banali (dare soddisfazione a bisogni primari come mangiare, bere, essere cambiati).
Il caso di Pietro è a questo proposito emblematico, non tanto per la gravità del quadro clinico (una tetraparesi spastico-distonica con grave compromissione neuromotoria e assenza del linguaggio verbale), ma per il fatto di essere arrivato all'attenzione di un Servizio di neuropsichiatria infantile quando era già un adolescente. Come spesso accade in questi casi, i suoi genitori non si erano fino ad allora resi conto che dentro quel corpo così difficile da accudire e fondamentalmente da riabilitare, c'era una mente pensante, c'era un soggetto che aveva ancora la voglia di esserci, di avere voce in capitolo, e qualche volta di fare la voce grossa!
[...]
Dal punto di vista neuropsicologico Pietro mostrava di avere buone capacità cognitive, ma risultava estremamente penalizzato da un gravissimo disturbo del linguaggio espressivo legato alla patologia neurologica di base. La comprensione verbale era adeguata, anche se lo sviluppo di un suo vocabolario interno organizzato in forme morfosintattiche anche complesse non ha mai potuto essere modulato da uno scambio linguistico verbale.
Nel corso delle osservazioni iniziali la prima necessità che avevamo sentito con urgenza era stata quella di definire un SÌ e un NO chiari e condivisi da tutti, dal momento che fino ad allora usava la voce, ma in un modo così poco differenziato che le risposte venivano sempre interpretate dai genitori in modo del tutto arbitrario, anche se in assoluta buona fede. Era dunque prioritario dare al ragazzo un primo strumento per esprimere una decisione che non potesse essere equivocato. È stato particolarmente interessante osservare come durante il primo lungo colloquio in cui Pietro ha utilizzato questi due unici segnali codificati, è riuscito a stupire i suoi familiari per la determinazione con cui affermava la sua volontà. Ciò però avveniva esclusivamente per gli argomenti da lui conosciuti, mentre sospendeva ogni tipo di risposta se le richieste erano troppo distanti dal suo campo esperienziale. Questa sua attitudine si è rivelata cruciale per poter fin da subito valutare con lui le reali necessità comunicative. Allo stesso tempo si è potuto comprendere appieno come un così limitato campo di esperienze di Pietro rappresentasse un elemento di particolare criticità. Non aveva idea di cosa significasse influire sull'ambiente, e restava di conseguenza molto perplesso davanti alla richiesta se gli sarebbe piaciuto o meno farlo. La realtà che aveva sempre sperimentato era la sostituzione, l'accudimento e la cura, in una logica di delega a tutto campo. Con forza Pietro ci stava dicendo che voleva essere messo in grado di capire e di decidere. Si propose pertanto l'attivazione di un progetto di comunicazione aumentativa.
Nella presentazione utilizzata al convegno c'è una diapositiva con una pagina dove Pietro afferma la sua forte intenzione di decidere riguardo la sua vita, riguardo gli aspetti per cui ha la possibilità di scegliere.
La pagina è stata redatta cinque anni fa, con uno strumento che non gestisce gli aspetti morfosintattici della nostra lingua e quindi la produzione appare piuttosto "primitiva" sotto questo aspetto. Anche i simboli utilizzati appartengono a un insieme che non ha potenzialità espressive di livello adeguato, ma la volontà di affermazione è invece molto chiara e adulta.
Questa determinazione, ripetuta, "prima decidevano decidevano, decidevano gli altri, ora decido io, ora decido io" ci parla della grande importanza del rispetto della libertà, sempre.
E della necessità di fare emergere anche dentro i nostri contesti associativi le rappresentazioni sociali della persona con disabilità. Forse anche fra di noi accanto alla rappresentazione come "persone" sopravvive la rappresentazione dei nostri figli come "infanti", come bambini da accudire, incapaci di scegliere della loro vita, nelle piccole e nelle grandi cose. È difficile accogliere l'alterità dei nostri figli quando nei primi anni di vita o dentro stagioni specifiche, a volte per periodi molto lunghi che sembrano occupare l'intera vita, ci è stata consegnata l'urgenza, la necessità, di una dedizione assoluta. La sopravvivenza stessa completamente delegata a noi genitori. È difficile quando intorno si moltiplicano i segnali di un disinvestimento sociale, se vengono meno i segnali di essere parte di un contesto.
Quando queste differenze di rappresentazione esistono credo sia importante vengano riconosciute, quando possibile composte, quando non è possibile tenute accanto.
Difficile ma non impossibile.
Opinione già pubblicata il 25 aprile 2012.