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Persone con disabilità

A cura di Ledha

Archivio opinioni

30 Novembre 2011

Questione di casa: diritti, persone con disabilità, operatori

di Paolo Aliata, responsabile organizzativo LEDHA

Contributo di Paolo Aliata ispirato al suo intervento durante il seminario di approfondimento “La residenzialità: tra vecchie e nuove necessità". Tratto da "Appunti" di Grusol Novembre-dicembre 2011 www.grusol.it

1 Di casa in casa
Questo contributo si ispira ad alcuni contenuti del mio intervento presentati al seminario di approfondimento "La residenzialità: tra vecchie e nuove necessità", all'interno del ciclo "Persone con disabilità. I diritti, i bisogni, i servizi". L'evento si è tenuto a Jesi il 13 maggio 2011 e sono stato chiamato a rappresentare la voce delle associazioni delle persone con disabilità come operatore di LEDHA (Lega per i diritti delle persone con disabilità), associazione di promozione sociale cui aderiscono 10 Coordinamenti territoriali e 17 associazioni a valenza regionale e rappresenta oltre 180 organizzazioni di persone con disabilità e familiari della Lombardia. Spunti che mi va di riprendere e ricomporre immaginando di accompagnare me stesso ed un operatore (o l'operatore che è in me, che è un po' la stessa cosa) in un piccolo viaggio attraverso "case" , un percorso circolare, non lineare (se non per logica di svolgimento) con andate e ritorni e ricorsività che spero possa offrire elementi di riflessione utili per chi variamente ha a che fare o "stare" con il tema dell'abitare per le persone con disabilità.

2.La casa dei diritti
Partiamo dalla casa più grande, quella abitata dai diritti delle persone con disabilità. I diritti delle persone con disabilità hanno davvero una casa, un luogo dove vivono, sono riconosciuti, promossi, assicurati: è la Convenzione Internazionale sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 30 marzo 2007, che vede oggi 153 Stati firmatari, tra cui l'Italia. E' una casa troppo grande, con tante stanze e sviluppata su più piani per poterla visitare tutta. Ci accontentiamo di fermarci all'ingresso, di capire alcune cose di fondo e di percorrere qualche corridoio velocemente, di affacciarci su qualche stanza, con la certezza che saremo obbligati a ritornarci comunque in seguito.

2.1 Perché una convenzione?
Dove siamo? Cosa è una convenzione? Una convenzione sui diritti umani - com'è quella di cui stiamo parlando - è un accordo internazione legalmente vincolante tra stati e paesi, che definisce alcuni principi relativi a un insieme di diritti umani e stabilisce i parametri di condotta ai quali i governi si devono attenere per rispettarli. La convenzioni promuovono e difendono i diritti umani in tutto il mondo, assumendo come premessa e fulcro di attenzione l'"innata dignità di ogni uomo" e la parità e l'uguaglianza tra le persone. In questo senso non ci sono uomini con più diritti o con meno diritti o con diritti diversi: i diritti umani valgono infatti per tutti e per ciascuno, in ogni luogo ed in ogni tempo. Se così non fosse sarebbero privilegi a cui, dall'altra parte, corrisponderebbero discriminazioni. Ci guardiamo io e l'operatore che è in me e con me: ci vengono in mente immagini e situazioni. Soprattutto nomi. Ci diciamo anche che i diritti umani, dunque, hanno lo stesso valore sia per chi ne è consapevole ed è in grado di farli valere, sia per chi non lo è. Io vedo Marco, così essenzialmente detto "non verbale" perché non parla. Troppe persone pensano che poiché Marco non sa e non capisce nulla, e non può dire nulla, nulla ha da dire e non ha diritto a nulla. Nello stesso istante, al mio compagno di viaggio appare il viso di Francesco: quante volte i suoi diritti sono stati nascosti e taciuti e non visti, perché urlati solo con pugni sul muro e non con "le dovute maniere". Quante parole Marco e Francesco hanno da dire senza aver bisogno di parlare. Ci guardiamo. Su queste immagini, capiamo il senso di una convenzione in generale, e per le persone con disabilità in particolare: non nuovi né diversi diritti, ma riconoscimento che le persone con disabilità "incontrano continuamente ostacoli che non permettono la loro partecipazione quali membri della società e subiscono violazioni dei loro diritti umani". Le persone con disabilità sono quindi, a maggior rischio di discriminazione, da qui la necessità di una Convenzione. In sintesi e semplicità (ma ben sappiamo che semplicità è spesso sinonimo di densità e valore) lo scopo della convenzione, come riportato dall'articolo 1 - è "promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le liberta fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro innata dignità".

2.2 Un nuovo sguardo
La convenzione dei diritti delle persone con disabilità è così uno strumento per i diritti umani e per il loro sviluppo, è uno strumento politico per tutte le disabilità e che interessi tutti i settori, ma soprattutto è un vincolo legale: infatti la Convenzione Onu è stata approvata dal Parlamento Italiano il 24 febbraio 2009, diventando legge (la legge 18 del 3 marzo 2009) ed entrando in vigore il 15 marzo nel 2009. Ci guardiamo sorpresi: è una legge dello stato italiano? Si, la convenzione è una legge ed inizia ad essere citata negli atti normativi successivi.
La Convenzione è altro e di più. ha anche un "valore culturale", in quanto cambia lo sguardo sulla disabilità: rappresentando un vero e proprio cambiamento di paradigma: significa passare da un approccio caritativo, ad uno medico ad uno sociale. Vuol dire anche passare dall'inserimento, all'integrazione, all'inclusione. Dal bisogno al diritto. Con quell'attenzione e quel valore che la Convezione assegna alle parole ed ai cambiamenti, abbiamo qui il tempo ed il modo di percorre solo il primo corridoio. La Convenzione Onu sposta l'approccio alla disabilità da caritativo e medico a sociale. Nei primi due approcci le persone con disabilità sono dei "problemi per la società" che hanno, nel primo caso, bisogno di aiuto, nel secondo, bisogno di cure e riabilitazione. Problemi vuol dire che rappresentano situazioni "fuori norma" che vanno sistemate, allineate, appianate, taciute o nascoste nel primo approccio con soluzioni di tipo istituzionale o monetario e che vanno riparati, guariti, aggiustati, nel secondo caso, con soluzioni ospedaliere o presso centri specializzati. Io ed il mio operatore compagno di viaggio, non possiamo che abbassare lo sguardo, ognuno a riconoscere nel suo lavoro quotidiano pezzi in cui questi modi di guardare la disabilità sono stati e sono più che mai presenti. Quante "riparazioni" e quanti tentativi di "allineamento" nei nostri gesti professionali troppo "educativi"?. Il terzo approccio, quello sociale della Convenzione, scompagina i riferimenti: se proprio, è la società che è un problema per la persona perché la discriminazione mette a rischio il pieno godimento dei loro diritti. In questo caso la soluzione è l'"abilitazione" della società ad includere le persone con disabilità che diventano, con le organizzazioni che le rappresentano, le vere protagoniste di questo processo. Intuiamo che non ce la caviamo facilmente: testa ancora bassa, in silenzio, con il presentimento che i conti li faremo alla fine. Condividiamo, io ed il mio compagno di viaggio, la prima sensazione di empasse, ingaggiati anche però dalla sfida aperta dall'approccio dei diritti. Vorremmo fermarci qua e sostare, ma la necessità di stare nei tempi e nelle righe del viaggio, ci obbliga a lasciare per il momento questa casa. Portiamo con noi una copia cartacea della Convenzione, che ci permetterà di tornare nella "casa dei diritti" quando più avanti nel percorso ne avremo bisogno.

3.Una casa per tutti?
Bussiamo alla porta di un'altra casa, fatta di mattoni, quella "vera", "abitata" dalle persone con disabilità. Io ed il mio compagno operatore sappiamo il senso di quelle virgolette su "vera" e"abitata". Al momento nessuno viene ad aprirci. Abbiamo bisogno di capire dove siamo o dove dovremmo essere. Cosa significa casa e abitare? Partiamo quindi dai significati, che come i diritti, dovrebbero valere per tutti e per ciascuno. Siamo sulla soglia.

3.1 Cosa è casa?
Di fronte ad un tema così vasto, come spesso capita in momenti di "crisi" da ricerca e riflessione, suggerisco al mio compagno di viaggio di partire dalle definizioni. Smartphone alla mano (anche gli operatori sono ormai tecnologicamente avanzati) alla mano, ci connettiamo al sito di wikipedia, la più grande enciclopedia universale costruita on line. Leggiamo che:"Per casa si intende una qualsiasi struttura utilizzata dall'uomo per ripararsi dagli agenti atmosferici; essa generalmente ospita uno o più nuclei familiari e talvolta anche animali. (...) è stato nella storia il primo elemento fabbricato, che è andato ad incidere sull'ambiente naturale realizzando l'ambiente costruito proprio dei paesi e delle città". Già nella definizione ritroviamo due elementi che possono dare suggestioni interessanti. Due movimenti apparentemente opposti: il riparare (nella definizione, dagli agenti atmosferici, cioè da ciò che proviene dall'esterno) che richiama il chiudere: un movimento verso l'interno, personale, quasi intimistico: la casa - così vogliamo pensare - è il luogo di relazione con se stesso, è lo spazio ed il tempo dell'identità. L'elemento del costruire ("fabbricato" ed ambiente costruito) e dell'incidere richiamano invece l'aprire: si tratta di un movimento che (dopo e forse perché è stato verso l'interno) è verso l'esterno: la casa è quindi - così capiamo - anche il luogo di relazione e di costruzione di relazione con gli altri, il punto di partenza per l'influenzamento, per l'"incisione" sul contesto esterno. Le soglie, i confini sono elementi interessanti perché tengono insieme in maniera vitale e generativa questi due elementi e gesti opposti, ma indispensabili l'uno all'altro.
Ma proviamo a fare un ulteriore passo nella ricerca dei significati per tutti di casa, scorrendo ulteriormente la pagina di chiedendo ancora aiuto a Wikipedia che ci dice che:"la casa non è soltanto un luogo,ma anche il fascio di sentimenti associato a esso. La "casa" va a definirsi come la matrice stessa della soggettività. L'azione simbolica realizzata dalla "casa" sulla vita psichica degli individui si riflette anche su quella sociale, andando a rappresentare un costrutto chiave che riunisce, e in parte sovrappone, tre campi: oltre che quello intrapsichico, anche quello interpersonale e quello sociopolitico". Come a dire - così, come se fosse cosa da poco - che senza casa non c'è uomo, non è data umanità, né capacità di personalità, relazionalità e socialità. Senza casa, per i significati che anche nella sua materialità racchiude, non ci può essere vita.. La portata di questa definizione di casa, che non avevamo mai pensato così intensa e di valore, ci "sposta". Casa è quindi sinonimo di luogo e tempo di vita, base per lo sviluppo e la realizzazione personale e sociale. Casa è anche luogo di raccolta e cura di emozioni, affetti, storie che possono aprirsi agli altri proprio perché hanno una casa e con gli altri provenire. Luogo "proprio" sicuro e accogliente, luogo dove si torna e da cui si parte. Dove ci si riconosce e ci si ritrova. Luogo di maggior libertà ed espressione. La casa va a definirsi come la matrice stessa della soggettività. Vi è da qui un passo in più, proprio perché luogo mio e certo è anche punto da cui salpare per incontrare e stare ed "incidere" con e sul resto del mondo: dalla casa, al condominio, la quartiere, alla città, nel territorio E se la casa (il dove) è luogo di vita, l'abitare (il come) diventa processo vitale di relazione con se stessi e gli altri. Ben sintetizza questo valore e dimensione identitaria e sociale Salvatore Petrosino nel libro "Capovolgimenti": "abitare è più che vivere: significa soprattutto prendersi cura di sé e del mondo circostante"
Questa, così riconosciuta, è la nostra casa, la mia casa e la casa del mio compagno di viaggio. E pensiamo alle nostre prime esperienze dell'andare a vivere da solo: quella casa, di proprietà, in affitto, in condivisione, anche una sola stanza, ci ha fatto sentire finalmente grandi, adulti, indipendenti ed autonomi. Le chiavi di casa: quelle che vorremmo avere anche ora, ma siamo ancorasulla soglia.

3.2 Una risposta senza casa
Bussiamo ancora. Un'ombra ci apre. Entriamo. Sappiamo perché siamo qua e sappiamo dove vogliamo e dobbiamo arrivare. Non possiamo non farci una domanda, questa casa, con tutti i suoi significati, è abitabile per e da tutti? Quale l'abitare per le persone con disabilità? Possiamo dire con certezza che questi significati e valori valgono per l'abitare dei 650 milioni di persone con disabilità che vivono nel mondo (tante quante quelli che abiterebbero la "terza nazione del mondo", dopo Cina ed India), o dei 57 milioni di persone con disabilità che vivono in Europa di cui 500.000 vivono in 2500 megaistituti?
Succede questo nella casa di ogni persona con disabilità?: "Capita a volte di svegliarci all'improvviso di notte e per una lunghissima frazione di secondo non riuscire più a ricordare dove siamo, finché non ci viene provvidenzialmente in soccorso quell'ordine familiare così come si dispiega nella quotidianità degli oggetti che ci circondano: la lampada sul tavolo, il golf abbandonato sulla sedia, la spalliera del letto. Quell'ordine cui abbiamo delegato quasi senza accorgercene il compito di trasformare l'angolo di mondo che ci è toccato in sorte in muto custode della nostra identità" Carla Pasquinelli, La vertigine dell'ordine, 2004,Baldini - CastoldiDalai Editore, Milano.
L'emozione nel leggere queste parole non tradisce il fatto che abbiamo già la risposta, per le nostra esperienza di operatori. Ritrovare parti di se nelle piccole cose, anche di notte? Sentirsi a casa nel luogo in cui si vive e sentire casa il luogo che si vive? Succede questo per le persone con disabilità?
No, non succede. Solo queste parole pronunciamo. No, non succede. La maggior parte delle persone con disabilità non vivono in questo modo questa casa e questo abitare. Nel nostro passaggio veloce nella "casa dei diritti", avevamo visto di scorcio qualcosa che si intitolava "vita indipendente ed inclusione sociale". Andiamo a controllare nel testo della convenzione: è l'articolo 19 che dice: Gli Stati Parti alla presente Convenzione riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società. Le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione
Conferma: un diritto negato, quello dell'abitare, che si "gioca" nel diritto più grande: quello della libertà di scelta, di dire "io", di diventare grandi. E, breve ricerca ancora in internet, scopriamo che paradossalmente, abitare, dal latino "habitare", secondo il vocabolario della Crusca, significa "lo star ne' luoghi che l'huom s'elegge per domicilio". Una scelta negata, davvero. Quale elezione? Le persone con disabilità non scelgono la casa, lo sappiamo. Se vanno, vanno in quelle che già ci sono, spesso senza un progetto ed un pensiero, ma sulla necessità di una emergenza. A me vengono in mente nomi che dicono di scelte come participio passato: scelte da altri, dalle condizioni, dal posto libero, da valutazioni anche economiche, ma non di vita, offuscando la capacità di "dire io" e non ricercando il senso e le parole di quelle voci spesso senza voce. Ricordo la "scelta" di Angelo che ha dovuto "spaccare" per dire che quella non era la sua casa obbligando ed accompagnando l'equipe degli operatori a pensare ad un altro tipo di abitare. Angelo ha rappresentato le scelte di altri che ora risiedono con lui in una casa più piccola e familiare. Ho visto anche persone al loro posto essere spostate di casa. Il mio compagno di viaggio porta con se altre storie di scelte non scelte e per queste non vissute né abitate. Ed altre domande: in quella "casa" cosa si sceglie: il compagno di stanza, cosa mangiare, a che ora svegliarsi ed andare a letto, cosa fare, quando accendere o spegnere la televisione e cosa guardarci. Immaginiamo le risposte.

3.3 Le parole ed i posti che usi
Racconto all'operatore compagno di viaggio ed anche a me stesso dell'esito di una mia artigianale ricerca delle parole usate nel linguaggio comune ed in quello istituzionale per "l'abitare delle persone con disabilità", parole importanti perché rappresentano, fotografano, segnano discriminano. Ho scoperto che io dopo l'ufficio da cui sto cercando di scrivere questo mio contributo, ritorno nella mia "casa" o "abitazione" e non nella mia "unità di offerta", "struttura", "residenza", "comunità", come sarebbe (così si legge e si dice) invece per una persona con disabilità. Io, nella mia casa, ci abito, ci vivo, ci dimoro e non, come invece sarebbe se fossi un persona con disabilità, "risiedo", "soggiorno", "sono ospitato", "ricoverato", "inserito". Non mi riesce molto bene l'ironia, ma continuo: io, come persona, nel mio essere e vivere l'appartenenza alla casa sono un inquilino, un abitante o al più un residente e non un "utente", "un ospite", "un paziente" o un "degente", così come sono rappresentate le persone con disabilità. Le parole sono pietre. Le parole ci dicono che le persone con disabilità non vivono, non hanno, non sono di casa.
E questo può succedere tanto più sono i "posti letto" previsti in una "struttura": è difficile, laddove possono essere previsti fino a 60 posti una buona qualità di vita ad ogni singola persona, fatta di storia, desideri. Può succedere tanto più si preveda che tutte le esigenze dell' "utente" (dagli aspetti sanitari, riabilitativi a quelli occupazionali) siano tutte soddisfatte dallo e nello stesso posto, non prevedendo esplicitamente legami ed interazioni con il mondo circostante. Il rischio è di creare realtà autoreferenziali ed esclusive e non inclusive: vengono limitate le possibilità di incontro, scambio ed esperienza con il "resto" del mondo , con ciò che è fuori confine. A questa riduzione o assenza di legami nella spazialità, ne potrebbe corrispondere una nella temporalità: ho incontrato persone "inserite" in un servizio in cui è difficile - a volte impossibile - creare connessione tra il loro passato, il loro presente ed il loro futuro, tra come si è vissuto fino al giorno prima e come si vivrà da quel giorno in poi. E' una vita in cui il passato non influisce sul presente ed un presente che non prepara un futuro. L'esito è la proposta agli "ospiti" di una vita con luoghi, ritmi e contenuti definiti in modo standardizzato dall'organizzazione stessa. Ho conosciuto persone che si alzano tutte ogni giorno alla stessa ora, per fare ogni giorno le stesse attività, mangiare lo stesso cibo e coricarsi tutte alla stessa ora. Una vita che non sa di casa, nei suoi elementi, valori, significati che sono quelli dell'abitare e validi per tutti. Una vita non sostenuta da un progetto che vede un luogo ed un tempo non per sempre, ma in funzione della storia, delle aspirazioni, delle condizioni della persona che è protagonista ed autore di quella vita. Il rischio è che quel luogo sia un "non luogo" "per sempre". Un "non luogo" perché tutto è già dato, fermo, deciso. "Per sempre" perché rischia di essere il luogo in cui la persona con disabilità passa il resto della sua vita. Una ripiegamento ed una deriva verso "l'istituto totale. Anche laddove sono encomiabili sforzi di enti gestori, coordinatori, equipe ed operatori si sono orientati a garantire le migliori condizioni di vita del loro "ospiti", con i "grandi numeri", abbiamo visto prevalere il rischio di discriminazione e segregazione. Usciamo in silenzio da questa casa poco casa.

4. La casa dell'operatore
Un po' sconsolati, ci accompagniamo nell'ultima casa: quella che per l'operatore è oggetto, luogo e tempo di lavoro. L'operatore mi guarda con un punto interrogativo: come fare ora? Come tenere insieme, in modo maneggevole e sostenibile, operativamente ed emotivamente, diritti e significati e realtà? Come rendere veramente "accessibili" ed abitate le case per le persone con disabilità nella nostra pratica professionale? Eh, sì: sta a noi. Sta a noi entrare e far vivere quel nuovo paradigma che ha portato la convenzione Onu, sta a noi assumere ed essere quel nuovo sguardo. Un cambiamento che va interiorizzato e riconosciuto, e dal quale e con il quale autorizzarci anche ad azioni inedite.
4.1 Riduttori di disabilità
Come possiamo ridefinirci, ripensarci e rifarci nella nostra identità professionale di operatore e nell'abitare in particolare? Guardo lui e l'operatore che è in me negli occhi. Una proposta, che è di più di una proposta, ma una premessa da prendere o lasciare. Dico io: proviamo a (s)guardarci come operatori di diritti, di quelli che abbiamo incontrato nella prima casa e come operatori di significati, quelli che abbiamo riconosciuto, insieme ad altri diritti, nella seconda casa. Proviamo a pensarci e ad attivarci come riduttori di disabilità. Dobbiamo entrare e stare, abitare nella disabilità. Non si tratta di un esercizio di empatia o di equilibrismo. Riapro il testo della Convenzione Onu e nelle prime pagine leggo che "La disabilità è un concetto in evoluzione ed è il risultato dell'interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri". La disabilità, che non è mai identica a stessa, nello spazio e nel tempo, ma cambia, essendo una rappresentazione, una visione che noi abbiamo e non un dato ascritto alla e nella persona, è l'esito di una relazione tra una persona che ha sì una difficoltà (si parla di minorazione e non di disabilità) ed un contesto che non la include. Ecco, questo è il fulcro su cui posizionare e lanciare quel "nuovo sguardo": in quanto componenti del contesto, come cittadini e come operatori, siamo dentro e facciamo parte di quella relazione e possiamo essere sia artefici che riduttori di disabilità. E nell'abitare, luogo, tempo e processo come abbiamo visto e vedremo, denso di valenze ed ambivalenze e significati, questa possibilità di influenzamento e di stare in relazione è davvero densa. L'operatore dell'abitare diventa facilitatore, connettore, traduttore tra contesto e persona con disabilità, in circolari andate e ritorni. Un attore non protagonista, un gregario, "una vita da mediano", ponte tra il tutto ed i frammenti che insieme compongono il contesto e la vita della persona con disabilità.
Sulla stregua della prima definizione di casa, quella che richiama al riconoscimento e costruzione della sfera più intimista e personale, è compito dell'operatore sostenere ed attivare il processo di "trasformare l'angolo di mondo che è toccato in sorte in muto custode dell'identità". E da qui, aprendo alla connotazione sociale e relazionale che abbiamo poi visto ancora contenuta nel significato di casa, è compito dell'operatore stare affianco e facilitare il passaggio a quell'"abitare che è più che vivere perché significa soprattutto prendersi cura di sé e del mondo circostante", quell'apertura oltre le soglie e le porte che portano a uscire di casa per entrare nel mondo per fare entrare in casa pezzi di mondo.

4.2 Il duro lavoro "quotidiano"
E tutto questo porta a focalizzare ancor di più l'oggetto di lavoro dell'operatore dell'abitare: è dentro quella relazione tra persona con disabilità e il contesto (ciò che è altro da lui) che si chiama "quotidianità". La quotidianità è la caratteristica delle cose che ci sono, si sentono, si cercano ogni giorno. Sono quelle cose banali e stupide che si sa che succedono, che si ha bisogno che succedano e siano allo stesso modo, che danno appartenenza, identità, riconoscimento e sicurezza. La quotidianità genera anche possibilità di vivere condizioni opposti alla stabilità: la quotidianità sono le solite cose che solite non sono mai, perché proprio perché solite e certe, danno anche possibilità di viverle creativamente, con eccezioni. .Per andare fuori dalle righe, occorre riconoscere dove sono le righe E dalla e nella quotidianità parte non solo la novità, ma anche la progettualità: è nell'oggi che raccolgo il mio ieri per pensare al mio domani .L'operatore mi guarda e capisce: vale così per tutti. La quotidianità, così definita, da un lato non la si controlla, ci si affida, ci si è accolti, ci si è "inclusi", ma dall'altro la quotidianità così intesa, non è data una volta per tutte, ne tanto meno è gratis, non nasce solo dal fatto di mettere insieme delle cose dando loro una volta per tutte delle coordinate di spazio e di tempo lungo le quali svilupparsi. Quattro mura non sono una casa. La quotidianità non vien da sé. Ed ecco il "lavoro" per l'operatore. Occorre "tirarla fuori". "E-ducere", da cui etimologicamente deriva la parola educazione e nonché educatore, significa letteralmente tirar fuori, condurre fuori, quindi liberare, fare venire alla luce ciò che è nascosto e saperci avere a che fare. Funzione dell'operatore è riconoscere, ricostruire, definire ogni volta, ogni giorno, quotidianamente, la quotidianità. Solo così genera significati e valori e può essere base e garanzia di diritti, quelli che abbiamo visto nelle prime due case: tra tutti il diritto della persona con disabilità di "dire io", di scegliere, creare, ribellarsi, sbagliare. La quotidianità diventa valore solo se "quotidianamente" diventa oggetto di ricerca, di "cura", di costruzione, di possibilità e garanzia di relazione.

4.3 Le fatiche/sfide di casa
Un "duro" lavoro quotidiano, quindi, quello dell'operatore dell'abitare, che deve misurarsi e sfidare altre criticità..Penso sia importante quindi fermarsi anche sulle "fatiche dell'abitare" su quegli elementi sfidanti che gli operatori incontrano nelle loro azioni ed emozioni "quotidiane". Quattro fattori su cui porre lo sguardo in modo nuovo, da riconoscere, "tirare fuori", ovvero riconoscerli e renderli "abitabili".
Una prima una fatica/sfida per l'operatore, nasce dalla necessità. attraversando il paradosso, di "squotidianizzare" la quotidianità, là dove oggi, nel mondo di quelli "affetti da normalità", la quotidianità sembra aver perso ogni possibilità di valore, sia data per scontata, anzi quasi da evitare perché apparentemente non di novità, non di moda, malsana, anzi noiosamente banale e portatrice di passività e di non protagonismo. C'è, succede, è. Sono quelle cose che sembrerebbero esserci - forse - per definizione.
Una seconda fatica/sfida nasce dal fatto che le "situazioni" proposte e proponibili o che semplicemente accadono nelle "case delle persone con disabilità" sono vere, naturali come quelle che dovrebbero accadere nelle case di tutti. È la verità della situazione. Contesti non artefatti, non separati, non obbligati, non precostituiti artificialmente per poter far provare, quasi acquisire "emozioni" come se fossero abilità, che neanche queste possono essere apprese artificialmente se poi non sperimentate nell'efficacia del concreto e del - appunto quotidiano. Per cui non vi è l'artefatto che filtra. Una terza fatica/sfida consiste nel fatto che la vita in casa, come in tutte le case di tutti, dovrebbe essere composta da situazioni non del fare, ma sopratutto dello stare, o del sostare. Il fare, le attività, il lavoro sono fuori (ma non per questo, auspicabilmente separati e lontani). E se c'è un fare, ha un senso diverso, naturale, non artefattivamente "obbligato", ma definito dallo stesso vivere insieme. L'apparecchiare, il far da mangiare, il pulire. Non c'è il fare come mediatore relazionale, che spesso però suona come alibi per l'operatore per non pensare e per non essere. Il fare è lasciato ad altri professionisti, fuori o dentro la casa. C'è il sostare, senza scuse per non essere lì. Il fermarsi è il guardarsi in faccia, nel riconoscere, anche nella noia (che è normale), nel tempo che non passa...(che è normale), della vita in ciabatte (che è normale) e della libertà di passare il dopo cena sul divano o in una sana solitudine nella propria stanza.
Situazioni in comune; si potrebbe chiamare così la quarta ed ultima fatica/sfida dell'abitare. La casa è un luogo dove, per una volta, sono più le cose in comune tra operatore e persona con disabilità che le differenze, spesso scuse per asimmetrie poco educative. Un Centro diurno per persone con disabilità è esperienza "disabile" "per disabili". La casa e l'abitare sono esperienza di tutti. Operatore e persona con disabilità, seppur guardate con gli occhi del servizio i primi e della casa i secondi hanno in comune: il vivere insieme, l'abitare, l'essere adulti, l'esperienza di una casa e di quotidianità. Luogo e tempo che è colorato e significato da chi ci abita, al di là che sia un abitare lavorando o un abitare non lavorando è un abitare vivendo. Più cose da normali che da disabili, giusto per dirla provocatoriamente.

4.4 Parole per l'uso
Criticità che ingaggiano, che forse ingrandiscono quel punto di domanda iniziale dopo il "che fare?"
E' ora di uscire dall'ultima porta della terza ed ultima casa e di salutare il mio compagno di viaggio operatore e l'operatore che è in me, per tornare ognuno al proprio vero operare. Senza risposte ora, forse, con la possibilità di costruirsi benevolenti domande, forse. Un po' in crisi, spero, ma con, la chiarezza di una possibilità di scelta con cui ridefinire o definire più fortemente la propria identità professionale. E le risposte saranno poi le nostre azioni a partire da oggi. Nello sguardo di commiato leggo negli occhi del mio compagno di viaggio: "si, i diritti, i significati, l'oggetto di lavoro, la quotidianità, belle cose che non posso che condividere nell'ascoltarle, ma poi nel fare... e quante cose da fare, una volta colte esclusioni e discriminazioni. Io capisco il rischio di frustrazione, la percezione di lontananza che avvicina all'impotenza. Mi va di riprendere, come se fossi un vecchio saggio e non come sono un operatore in costante ricerca di identità, il libretto della convenzione e ricordare, a mo' di slogan, tre spunti che spesso tolgono anche me dalla stessa empasse:
- oggi più di ieri, ed domani più di oggi - per dirci quanto e come "ridurre la disabilità": la Convenzione onu impone il divieto di "regressività", vuole solo "progressività", e non definisce i miglioramenti in entità assoluta, solo relativa. Questo è un dato fortemente confortante, per rendere più vicini e maneggiabili i principi della convenzione nel loro farli strumenti di azione e di lavoro. La convenzione chiede piccoli, feriali miglioramenti. Se fino a settimana scorsa, in casa, il venerdì a mezzogiorno è previsto come primo piatto solo la pasta al pomodoro, forse pensare per il prossimo venerdì l'alternativa di un sugo al pesto, è apertura alla possibilità scelta. Un inizio, che forse porterà a scegliere cosa si mangia partendo dai desideri o da cosa c'è in frigo e non da un menu predefinito per tutto l'anno o stagionalmente.
- il diritto a "dire io" - per richiamarci a riconoscere e "tirar fuori" sempre il desiderio, il pensiero, la volontà della persona con disabilità, in quanto persona con "innata" dignità, al di là che possa dirlo o realizzarlo. Il diritto alla vita indipendente, alla scelta che è e rimane - anzi paradossalmente se fosse possibile diventa più forte - laddove non c'è la possibilità che sia la persona stessa a dirla e a realizzarla. Anche qui, attivando piccole azioni inedite: Se una persona al mattino trova già sul letto i vestiti che deve indossare, non c'è scelta. Se invece magari può essere aiutata ad aprire l'armadio e scegliere se mettere la maglietta rossa o quella blu, tra due alternative si dipana tutto il valore, la bellezza (e la fatica e la responsabilità) della scelta e di esserne protagonisti
- chiedersi il perché - le persone con disabilità hanno diritto di accesso a tutto ciò cui accedono tutti. Nel momento in cui attivo gesti, percorsi, progetti, organizzati, servizi, pensieri diversi da quelli per e di tutti, devo essere assolutamente in grado in ogni momento di "renderne conto" e darne giustificazione.

Siamo sulla soglia, fine ed inizio di un viaggio. Saluto e ringrazio il mio compagno di viaggio, mentre rimango un attimo con l'operatore che è in me per ricordarmi che anche queste pagine e queste parole sono un "artefatto", "un laboratorio": le persone con disabilità, pur essendoci dentro, sono anche e vivono altrove. A loro il diritto di essere ciò che sono, oltre queste parole, oltre queste prefigurazioni. A loro il diritto di esserci e partecipare quando si parla di loro, di qualsiasi cosa riguardi loro. Perché se chi pensa non è chi vive, se chi sa o pensa di sapere non è chi sperimenta, perché se la mappa non è il territorio, anche se può servire ad orientarsi meglio, possono succedere cose inedite vere, come richiama un anonimo detto: "Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica aeronautica,il calabrone non può volare, a causa della forma e del peso del proprio corpo in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare."

Solo così anche lo stupore è di diritto e di casa.

Tratto da "Appunti" edito da Gruppo Solidarietà
Via Fornace, 23 - 60030 Moie di Maiolati Sp. AN- ITALY
tel/fax 0731703327 grusol@grusol.it

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