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Persone con disabilità

A cura di Ledha

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8 Novembre 2011

Un futuro possibile

di Carlo, bambino con disabilità

La storia di una disabilità raccontata con gli occhi di un bambino

Sono Carlo, nato a Milano, nella fabbrica dei bambini. Tutti i giorni al Buzzi atterrano nuove vite, ma per quelle speciali come la mia i medici non sono preparati. E, dopo un po', ti mandano a casa senza libretto di istruzioni.

I miei genitori si affannano da subito a scovare informazioni, aiuto, risposte. Con l'illusione di essere accompagnati. L'impatto con la burocrazia non è dei migliori. Per ogni passo, documento o procedura si rischia di andare in loop. E, com'è tipico di questo Paese, si perde tempo prezioso per capire chi fa cosa, dove e quando. Mamma e papà scoprono che a volte i diversi interlocutori non si parlano. Eppure una persona con disabilità, come tutti, vive, studia, si cura, si muove. Il famoso progetto di vita.
Loro non si accontentano di soluzioni tampone, sempre più in voga ultimamente. Non accettano compromessi imposti. Né la classica risposta "Signora mia, lei ha ragione, ma mancano le risorse".

Vado al nido. Siamo un bel gruppetto, tutti diversi, come è normale essere da piccoli. Le educatrici fanno del loro meglio, compatibilmente con le risorse, la loro preparazione, il loro senso di responsabilità. E' comunque un'esperienza preziosa.
Mamma e papà iniziano a prendere le misure. Le antenne alzate, così come le difese. Si attrezzano, imparano presto che serve un bagaglio adeguato per fare scelte complicate, percorrere sentieri, individuare soluzioni. Soprattutto, cercare e trovare il calore nelle persone. Sostenere lo sguardo degli altri. Spiegare, a volte confortare, chi afferma:"Io, nella vostra situazione, non ce l'avrei mai fatta."
Non c'è nulla di eroico, sapete, nell'accettare e amare un figlio con disabilità.
Mentre cresce la capacità di fidarsi, scoprono le associazioni, che hanno un ruolo importante, ma che, fondate sul volontariato, fanno come possono. Insomma, gente che si aiuta fra sé.


Al tempo stesso, viviamo sulla pelle la riduzione degli investimenti a favore delle persone
improduttive. Investimenti considerati a fondo perduto.
I tempi di attesa per logopedia con il servizio pubblico aumentano, e intanto cresco e vorrei riuscire a parlare.
Vado alla scuola dell'infanzia, e la strada si fa più ripida. La legge non ammette ignoranza. La mamma, allora, inizia a studiare. Riduce le ore di lavoro per dedicarsi a me. Per tessere la preziosa rete di contatti e relazioni. Per far circolare le informazioni con il passaparola. Informare e sostenere i più fragili, chi vive defilato, senza strumenti e coraggio di dire: "Mio figlio esiste. Con le sue fatiche, con le sue capacità. Con il bisogno di vivere dentro la società e non in panchina. Con la voglia di vivere, come i suoi compagni. E aiutarli a crescere. Dando loro l'opportunità di confrontarsi con i propri limiti e la frustrazione per scoprire il patrimonio di immensa ricchezza umana che accompagna la diversità."
La mia famiglia diventa il primo mediatore e facilitatore per colmare la distanza fra me e i
cosiddetti normodotati. Per me inventano soluzioni, a volte onerose, cercando gli strumenti perché io possa vivere una vita la più dignitosa possibile. A volte, si scontrano con l'ignoranza e l'indifferenza.
Senza di loro, rischio di essere isolato. Come a Pietra Ligure, in vacanza con il Comune. I ragazzi normodotati da una parte, con attività e giochi, e il gruppetto dei 'disabili', affidato agli educatori.
Approdo alla scuola primaria. In famiglia cresce lo sconcerto, l'amarezza e la rabbia. La scuola crede che il diritto allo studio si esaurisca garantendo l'accesso dei bambini con disabilità. Gli insegnanti di classe sono funamboli, con poca o nessuna formazione, con ben oltre 20 alunni, sempre più eterogenei.
L'insegnante di sostegno non è in classe tutto il tempo che serve. Anche lei, fa come può.
L'anno seguente il sostegno è dimezzato. La maestra ogni anno diversa, precaria e non specializzata.


Il concetto di continuità è pura utopia.
L'educatore comunale c'era in prima, una manciata di ore, preziose per aiutarmi ad aprirmi agli altri, comunicare, migliorare l'autonomia, acquisire fiducia e autostima. Lo scorso anno non c'era. I fondi del Comune, come in moltissime scuole, sono stati ridotti di due terzi. Quest'anno non so ancora cosa succederà.
Anche il tempo libero rischia di essere un tempo vuoto. Non è facile fare musica, nuoto o calcio con i miei compagni. A volte anche l'oratorio fa difficoltà. Anche se non sappiamo o possiamo pedalare, cantare o suonare, noi vorremmo stare con gli altri. Non in un ghetto. Non ancora.


E più cresciamo, meno opportunità abbiamo. In adolescenza le occasioni di partecipazione sociale si riducono. Passiamo meno ore a scuola, il centro di riabilitazione ci dimette perché è finita la cosiddetta "età evolutiva". I nostri coetanei iniziano a sperimentare la libertà di scelta. Noi, la solitudine, l'isolamento, le barriere.
Non parlare, non camminare o non saper scrivere non significa non volere entrare in relazione. Tutti noi abbiamo un canale, una porticina, più o meno nascosta, da cui filtrano pensieri, emozioni e sentimenti. Basta mettersi in ascolto, abbandonando i pregiudizi e la paura del diverso.
Le barriere mentali sono molto insidiose e difficili da abbattere, ma se tutti ci proviamo, lasciandoci stupire, costruiremo un futuro possibile e una società migliore per tutti.

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