Le impronte dell’anima, una recensione
La recensione allo spettacolo prodotto da Theatraki in collaborazione con le associazioni Lebenshilfe e Teatro La Ribalta, di Antonio Viganò e Giovanni De Martis, per la regia Antonio Viganò
Durante la presentazione della mostra organizzata da Ledha (Spazio Mil, Sesto San Giovanni) sullo sterminio nazista delle persone con disabilità, qualche ora prima dell'inizio dello spettacolo teatrale "Le impronte dell'anima", il regista, Antonio Viganò, aveva chiesto alle persone che avrebbero poi visto la rappresentazione: diteci, giudicateci, valutate il nostro spettacolo in quanto spettacolo e basta. Ovvero, diteci se siamo stati capaci di comunicare, trasmettere temi ed emozioni, non siate compiacenti solo perché parliamo di disabilità e nazismo, specie perché ci sono attori con disabilità. Questa sfida ha subito svegliato il mio spirito, in parte appagato da Paolini (visto in teatro e tv), in parte pieno della questione dello sterminio dei disabili.
In una scenografia essenziale e buia quanto basta, con gli specchi portati dagli attori con disabilità che invitano il pubblico a guardare se stesso e con le prime parole si è catturati dentro le cose. È subito chiaro che ci si trova di fronte ad uno spettacolo molto diverso da quello di Paolini. La concomitanza tra i due eventi è fortuita, l'eventuale visione precedente di "Ausmerzen" potrebbe far credere allo spettatore di sapere di già; la somiglianza iniziale di una battuta (quella sul saccoapelo inventato da Galton, inventore di tutto e anche dell'eugenetica) potrebbe far pensare a qualcosa di già visto.
Non è così. Si tratta di due spettacoli molto diversi tra loro. Laddove "Ausmerzen" è un monologo con alcune tonalità della evocativa e suggestiva lezione (tanto storica quanto civica) attorno al tema, "Le impronte dell'anima" è una rappresentazione corale a più toni e più registri e in cui la presenza di attori con disabilità non solo oggettiva i temi, ma dà loro carne.
E lo fa in un modo completamente teatrale, cioè uscendo dai facili entusiasmi e dal pietismo di vedere sulla scena attori con disabilità. I quattro interpreti con disabilità, infatti, non impersonificano se stessi, ma recitano le figure di persone coinvolte dentro la macchina dello sterminio dei disabili. La differenza, che emerge non in teoria ma sul piano della recitazione, non è di poco conto: né sul piano dell'economia dello spettacolo, né sotto il profilo concettuale: troppo spesso, quando accade, chi è disabile interpreta semplicemente se stesso.
All'interno di questa cornice interpretativa, vero aspetto di forza dello spettacolo, si armonizzano le interpretazioni di tutti gli attori, sette in tutto. Lo spettacolo, della durata di un'ora e un quarto, utilizza codici e registri diversi (anche lo scherzo e l'ironia su un'esperienza tanto drammatica, che raggiunge l'apice con le note di Rock 'n' roll robot di A. Camerini che accompagna la performante danza di un convinto burattino seguace del nazismo e dell'eugenetica) sia nelle diverse scene, sia all'interno della stessa scena (la caritatevole avversione dell'infermiera per i disabili che passa dalla bonaria risata all'ostile cattiveria).
Il susseguirsi delle vicende, soprattutto scientifiche e propagandistiche, che hanno sotteso la costruzione dell'operazione Aktion T4 è reso in modo efficace con le parole e con l'interpretazione e la seconda non è l'esemplificazione delle prime: codici diversi costruiscono uno scenario essenziale, ma composito e articolato. Il dramma dell'esperienza nazista non è raccontato a parole, ma interamente recitato e impresso sui corpi e sui volti degli interpreti, per questo lo spettatore è coinvolto emotivamente.
La drammatica chiusura è l'esito di un susseguirsi di scene in cui la tragedia ad un certo punto prende una svolta netta, inarrestabile, quasi come se si volesse comunicare il salto netto tra l'impercettibile violenza del "caso per caso" oggetto di discorsi scientifici e sterelizzazioni alla bordata di crudeltà applicata alle uccisioni collettive nelle camere a gas (il tanto silenzioso quanto certo successo garantito dalle bombole a gas Basf).
Si capisce perché questo spettacolo suscita così grande interesse nelle scuole e nelle varie rappresentazioni, riesce a mettere in scena un dramma storico, raccontando, facendo riflettere (e talvolta sorridere), emozionando. Non è forse completamente riuscito l'aggancio con la realtà odierna, che pure ci ricorda quanto forme di razzismo e stigmatizzazione portino facilmente ad attribuire statuti inferiori (ieri ai disabili oggi agli extracomunitari) che giustificano trattamenti speciali in nome del buon funzionamento dell'economia e del sangue nobile, ancor più che la razza pura (quello germanico ieri, quello italico-padano oggi).
Secondo i criteri chiestici inizialmente dal regista Viganò (il rispetto dei quali è l'unico modo realmente in grado di far uscire dal pietismo sugli attori con disabilità o dal guardarli come fossero fenomeni da baraccone), possiamo rispondere che l'operazione è riuscita: questo è teatro che comunica, racconta ed emoziona. Per questo la sua visione può rappresentare un momento di formazione, per le scuole ma non solo. È formazione sia su un tema tutto sommato ancora poco noto ai più, lo sterminio delle persone con disabilità, sia sulla disabilità stessa, attraverso le interpretazioni degli attori con disabilità che recitano né meglio né peggio degli altri attori, semplicemente diversamente. Quella diversità che ieri portava nelle camere a gas porta, con questo spettacolo, porta altrove, anche a riflettere della viltà e del sopruso di considerare qualcuno inferiore.
Matteo Schianchi
Le impronte dell'anima
Compagnia Theatraki,
Testi di Antonio Viganò e Giovanni De Martis
Regia di Antonio Viganò