La vera sfida è ripensare le RSD
Marco Bollani porta il suo contributo al dibattito iniziato da LEDHA sulle Residenze Santitario assistenziali per persone con disabilità
Rispetto al dibattito iniziato da Giovanni Merlo, Paolo Aliata e Guido de Vecchi, RSD: un servizio da ripensare?, in cui si evidenziavano alcuni rischi insiti nel modello RSD penso che l'impronta culturale che tu dai al servizio ne determina l'identità, ben più che la normativa di riferimento che ne definisce gli standard di funzionamento.
Questa è la mia opinione, ma prima ancora è la mia esperienza.
Ma proprio in virtù della mia esperienza, rileggendola e cercando di contestualizzarla nell'attualità di questi ultimi anni aggiungerei che sì, la RSD è davvero un servizio da ripensare, e prima lo si fa meglio è. Ripensarlo però non vuol dire "rottamarlo", metterlo al bando, negarne la necessità, l'utilità. Semmai il contrario.
Nella mia esperienza di direttore di una cooperativa sociale Anffas, nel corso di questi anni ho potuto apprezzare lo sforzo e la fatica di molte persone con disabilità, di molti operatori, genitori e volontari, nel mantenere viva la sensazione di sentirsi a casa propria.
E non poteva essere altrimenti. La nostra struttura (ove ha sede la RSD) è nata per questo. E' una palazzina, costruita dai genitori dell'Anffas, per quando loro non ci saranno più e i loro figli avranno bisogno di una casa e di un ambiente in cui vivere, nel miglior modo possibile.
Quando è stata costruita la struttura, i familiari dell'Anffas e i soci della cooperativa che li hanno aiutati, non avevano in mente il piano socio assistenziale dell'89 che disciplinava gli standard strutturali del CRH. Avevano in mente un ambiente vicino a casa, in città, che potesse essere spazioso, confortevole e luminoso.
Nell'accogliere progressivamente le persone che oggi vivono in questa struttura, gli operatori hanno cercato con tutta la loro forza di declinare al meglio il desiderio dei genitori: far sentire i loro figli a casa propria, rendendo la loro vita la migliore possibile.
Ben presto infatti quel desiderio è diventato anche il desiderio di molte persone con disabilità che già usufruivano dei servizi della cooperativa.
Fino ad ora, però sono stati tralasciati all'interno del dibattito, alcuni elementi niente affatto trascurabili:
- Quando nasce una RSD (ma il discorso vale per qualsiasi servizio), chi la mette in piedi?
- E soprattutto perché lo fa?
- Quale obiettivo si pone?
- Che finalità attribuisce al servizio?
- Che "mission" assume tale servizio?
Si tratta di elementi, per la mia esperienza, non secondari.
In estrema sintesi, perché "mettere in piedi" una palazzina dove ci andranno a vivere un po' di persone con disabilità?
A mio avviso è necessario e anche un po' urgente ripensare alla RSD per dare un po' più "respiro" e "argomenti" ,anche sul piano normativo, alla domanda del "perché?"
Leggendo l'attuale delibera che la istituisce, la risposta intuibile, potrebbe essere che la RSD è un servizio nato per garantire una risposta assistenziale alle persone con meno di 65 anni "non più assistibili a domicilio".
Ora, tralasciando che sarà molto dura "sfrattare" una persona solo perché ha raggiunto i 65 anni, soprattutto se in RSD ci è entrato prossimo ai 60 dopo una vita tutta chiusa in casa con mamma e papà ormai 80enni, credo che la classificazione "non più assistibili a domicilio", riferita ai destinatari, sia totalmente insufficiente.
Per le persone "destinatarie" della RSD io auspicherei una definizione un po' più larga, com-prensiva (nel senso letterale della parola), che tenga conto anche un po' del "perché" sia necessario mettere in piedi servizi come questo...
Mi piacerebbe che nella norma, nella delibera dell'ipotetico "ri-pensamento" fosse scritto che bisogna realizzare altre RSD, "perché l'aspettativa di vita delle persone con disabilità si sta alzando progressivamente e l'invecchiamento progressivo dei loro genitori le espone a rischi molto elevati di esclusione sociale e di difficoltà esistenziale; per questo motivo è necessario prevedere anche per le persone con disabilità complesse, delle prospettive di vita dignitose, capaci di garantire condizioni di ben-essere esistenziale, capaci di promuovere opportunità inclusive, attraverso soluzioni abitative e residenziali diversamente modulabili tra cui servizi residenziali come le RSD in cui le persone possano viverci, abitare e sentirsi il più possibile, come a casa loro"...
Pensiamo alla legge sull'amministratore di sostegno. Essa impone, prescrive, di tenere conto dei bisogni e delle aspirazioni delle persone da tutelare. L'uomo, la persona, com-prende la patologia ma non è più la Patologia che "com-prime" e nega, la persona. Un bel salto giuridico, per il nostro codice civile.
Qualcosa di simile è necessario anche per i nostri servizi.
Perché dal punto di vista pratico, molto pratico, molto concreto direi, è necessario ribadire che dietro qualsiasi idea di servizio, modello di riferimento, modello organizzativo, prescrizione normativa, c'è un idea precisa di uomo.
E mi spiego.
Se metto in piedi un servizio e lo destino a persone "non più assistibili a domicilio" e basta, e non dico più niente, la mia idea di uomo, di persona che devo accogliere lì dentro, è quella di una persona che viene lì per essere assistita, ben assistita (ci mancherebbe altro).
Se però nella norma ci aggiungo anche quelle quattro righe in corsivo scritte sopra, vuol dire che chi viene accolto "lì dentro", "li dentro" deve viver-ci. E vivere bene. E che per vivere bene non basta che la struttura certifichi di "aver in dotazione un buon protocollo operativo per il corretto igiene del cavo orale" ... Bisogna che la struttura dimostri (che è un gradino più alto del "certificare") che chi vive lì si senta a casa sua. E che chi vive lì, viva anche il luogo in cui il servizio è ubicato. Significa che chi vive lì, vive in RSD, ma vive anche il quartiere della città, partecipa alla vita della città, viene ri-conosciuto come un qualcuno che abita e vive in quel quartiere lì, dove incontra persone, le vede, le sente, è visto, è sentito...
Perché altrimenti, se sta sempre lì dentro e basta che vita fa? Una vita da cane, O no?
Affermare queste convinzioni, stiamo ben attenti, non significa tuttavia trascurare l'importanza di aver in dotazione "un buon protocollo per l'igiene del cavo orale" . Trascurare ciò sarebbe ancora più grave e riduttivo della visione povera dell'uomo prima citata, semplicemente "non più assistibile al domicilio".
Perché per molte persone che vivono in RSD la presenza di buoni protocolli sanitari è spesso garanzia necessaria non solo per una buona qualità della vita, ma anche per prevenire rischi letali. Un aspiratore che non è stato riposizionato al posto giusto come prescritto dal protocollo, può costare la vita ad una persona.
La RSD è una sfida quotidiana nel cercare di tenere insieme aspetti pratici, normativi, esistenziali, tra loro molto diversi, talvolta anche antitetici.
Ci sono molte persone che hanno scelto di vivere in RSD dopo un percorso molto bello costruito insieme ai genitori, ad operatori e volontari.
Ma esse, in RSD, possono anche dover con-vivere con persone che non hanno scelto di vivere "lì dentro".
Ci sono persone che sono transitate dalla RSD e oggi vivono da sole. Ma vivono da sole anche perché sono transitate dalla RSD.
Ci sono persone che sono entrate molto giovani in RSD e probabilmente ci resteranno tutta la vita. E probabilmente la qualità della loro vita dipenderà sempre di più anche dalla corretta applicazione di apparecchiature tecnologiche e di protocolli sanitari anche molto sofisticati.
La vera sfida in ogni RSD penso sia quella di Tener Insieme queste persone, questi aspetti, senza che uno di essi prenda il sopravvento sugli altri.
In questa sfida siamo tutti un po' esposti al rischio del riduzionismo.
L'eccesso di enfasi sugli aspetti normativi è pericoloso. Non può la legge dare interamente corpo e anima ad un servizio. Io operatore, io ente gestore, io persona con disabilità, io familiare, volontario, ci devo mettere "del mio".
Allo stesso tempo però non può la legge "ridursi" a non menzionare e a non esplicitare una prospettiva esistenziale se sta disciplinando un "modo" un "come", per affrontare il problema di persone che vivono in condizione di altissimo rischio di esclusione sociale e di negazione della propria identità personale...
I protocolli e le procedure sono fondamentali, sono importantissimi... Però non possiamo protocollare tutto.
La vera sfida per le nostre organizzazioni (e tra queste ci son dentro sicuramente le nostre RSD) a cui viene chiesto di proceduralizzare sempre di più i processi del lavoro di cura delle persone, attraverso protocolli scritti e procedure standard, consiste quindi nell'inserire questo sforzo dentro una cornice più ampia e più profonda. Una cornice che non può avere come obiettivo finale una concezione astratta e autoreferenziale di qualità, nelle sue varie forme di certificazione, ma deve porsi come fine ultimo l'umanizzazione e la personalizzazione dei nostri ambienti, dei nostri processi di lavoro ma prima ancora dei nostri modi di essere, di stare accanto e di di-venire insieme, alle persone.
Tale prospettiva riflette anche un preciso cambiamento del pensiero e della cultura scientifica.
Nell'ambito delle politiche, dei servizi e degli interventi a sostegno delle persone con disabilità infatti, al concetto di "cura" inteso come processo che punta alla guarigione, si è progressivamente sostituito il termine di "presa in carico" nell'accezione di processo che punta a promuovere il ben-essere della persona.
Questo cambiamento riflette l'evoluzione della concezione antropologica della persona con disabilità che ha cessato di essere una persona malata, da guarire, ed ha assunto a pieno titolo il ruolo di persona sana che vive in un ambiente sfavorevole.
Questo almeno ci dice l'organizzazione mondiale della sanità quando afferma che "la disabilità è una condizione di salute in un contesto ambientale sfavorevole".
Promuovere benessere significa quindi costruire ambienti ricchi soprattutto di relazioni significative, dotate di senso, capaci di generare fiducia e scambi carichi di reciprocità in cui ciascun individuo in gioco, possa ri-conoscersi come persona. Ambienti in cui il "tono" e il "clima" della con-vivenza rappresentino gli indicatori di benessere essenziali per promuovere una qualità che non si riduca ad esprimere livelli di con-formità a sistemi standardizzati di procedure.
Quindi se vogliamo declinare e attuare dentro i nostri servizi i dettami della legge 3 attraverso la circolare 8496 andando a prendere i riferimenti legislativi che informano (danno forma) alle modalità organizzative dei servizi per gli anziani, perché entrambe le "categorie", o peggio, entrambi i "target di utenza", sono accomunati dalla non-autosufficienza, stiamo sbagliando.
Per questo non possiamo perdere altro tempo prima di ri-pensare le RSD, perché la normativa che sta venendo avanti, in molti casi è pensata male.
E se aggiorniamo le norme attuali dobbiamo "scriverglielo dentro", che per gestire bene una RSD dobbiamo tenere insieme, coniugare, la necessità di standardizzare e di proceduralizzare, con l'obbligo di personalizzare e umanizzare, i nostri processi e le nostre modalità organizzative.
Questa è la vera sfida. Questa è la posta in gioco se vogliamo prefigurarci un risultato coerente con la centralità della persona e della sua famiglia, con il diritto ad un processo di presa in carico personalizzato, che a parole e negli slogan dovrebbero essere i pilastri e gli elementi cardine della legge 3 che da forma al sistema di protezione sociale del welfare Lombardo... Ma poi nei provvedimenti delle delibere...Un po' meno (diciamo così...).
Perché è molto semplice affermare la centralità della persona.
Forse invece, rappresentarsi la persona come "il centro" del sistema delle prestazioni e degli interventi, consente al cittadino, nel suo rapporto con i servizi e le istituzioni, di assumere un ruolo meno sub-alterno, più pro-attivo, gli consente di ispirare e in-formare (nel senso di dare forma) sistemi di cura e presa in carico più con-formi ai suoi bisogni, più personalizzabili, più umani, nel senso di più a misura d'uomo.
Di spunti da cui partire, per ripensare le RSD, ce ne sono tantissimi.
Credo che dentro la maggior parte di queste strutture ci siano anche tantissime energie e tantissima voglia di crescere e di andare un po' oltre... oltre la propria identità, oltre i propri orizzonti...
A Giovanni, Paolo e Guido, il merito di averle pro-vocate...
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Opinione già pubblicata il 19 novembre 2010.