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Persone con disabilità

A cura di Ledha

Archivio opinioni

6 Settembre 2010

A proposito delle RSD

di Fabrizio Magani - Direttore RSD “Luigi e Dario Villa”

Fabrizio Magani contribuisce al dibattito lanciato da LEDHA attorno al tema delle residenze sanitarie per persone con disabilità, lanciato da LEDHA, forte della sua esperienza in qualità di direttore di una struttura

Conosco le storie di cui parla Renzo Bagarolo nel suo stimolante scritto pubblicato qualche settimana fa, sono molto simili alle storie di alcune delle persone che attualmente vivono nella RSD in cui lavoro, così come delle persone che si rivolgono a noi alla ricerca di un luogo dove abitare: difficoltà nella gestione di gravi condizioni di salute, che unite alla non autosufficienza portano a situazioni di isolamento sociale e impoverimento della vita di relazione, genitori in età molto avanzata che non ce la fanno più a garantire ai figli non solo cure e tutele, ma neanche la possibilità di uscire di casa, frequenti ricoveri in strutture ospedaliere scarsamente attrezzate per farsi carico della gestione degli aspetti "non sanitari" della vita delle persone, contesti familiari spesso segnati dalla fatica e dalla solitudine, sono solo forse gli esempi più frequenti delle condizioni di disagio con cui molte persone con gravi disabilità si trovano a fare i conti.


Ed è questa purtroppo la realtà spesso descritta dalle telefonate che riceviamo da operatori dei servizi sociali o da familiari di persone con disabilità alla ricerca non di un posto letto, come spesso si banalizza nel linguaggio un po' burocratico usato in queste circostanze, ma di un luogo che offra abitabilità a chi vive una grave condizione di non autosufficienza.
Ma questa ricerca rimane per molti lunga e faticosa, per alcuni infruttuosa: soprattutto per quelle persone che, in modo più evidente di altre, si ritrovano ad essere al di fuori di quei criteri di omologazione che, in riferimento ad una supposta "normalità", appaiono condizionare il nostro contesto sociale, gli stili di vita ed i modelli di comportamento delle persone.
Questa idea così pervasiva di normalizzazione a quanto pare si traduce poi, nelle politiche d'intervento in ambito sociale e socio-sanitario, nell'imperativo di definire per provvedimento normativo (la radice etimologica è la stessa, guarda caso), in modo rigidamente predeterminato, categorie e tipologie di persone con fragilità, definendo di fatto in questo modo anche la loro adeguatezza, non viceversa, ai servizi, in una logica secondo me di preoccupante distanza tra dichiarazioni di principio e dati di concretezza sul piano dei diritti delle persone.

Per evitare di procedere per generalizzazioni che rischiano poi di scadere nel luogo comune, e di rinchiudersi in categorie predefinite e standardizzate (di servizi, di prestazioni, di persone), forse rassicuranti, ma di certo generalmente poco utili per affrontare i problemi e produrre movimenti realmente evolutivi, credo sia quindi importante che ci si richiami, tra "addetti ai lavori", a non perdere di vista le persone nella loro concretezza ed i bisogni reali che queste persone vivono ed esprimono.
Questo ci costringe, anche nei processi di valutazione e verifica del nostro lavoro e dei nostri servizi, a fare i conti con una dimensione di complessità, fatta anche di contraddizioni e forti criticità, che merita analisi articolate e pluralità di sguardi (interni, esterni, collaterali, di prospettiva, sul micro e sul macro...).

Ringrazio quindi chi ha sollecitato questa riflessione e questo confronto a più voci sulla situazione delle RSD: mi piacerebbe fosse l'occasione per provare ad aprire e mettere insieme sguardi diversi, da diversi punti e prospettive di osservazione, sul modello che abbiamo in mente così come sui modelli oggi possibili e praticabili di servizi residenziali per le persone con gravi disabilità.
Allora vorrei provare a mettere in fila, in modo sintetico e sicuramente non esaustivo, alcune delle questioni secondo me tra le più importanti sulle quali riflettere e confrontarci.

Sembrerebbe che, nell'affrontare la questione dell'abitare per le persone con disabilità, ci si trovi di fronte a due linee di tendenza diametralmente opposte: da un lato servizi residenziali con una forte dimensione sanitaria, dall'altro progetti alternativi ed innovativi, generalmente riferibili a forme di residenzialità definita "leggera".
Sono d'accordo che gli orientamenti espressi dalla normativa e dalle direttive della Regione Lombardia in questo senso non sempre ci aiutano, ma personalmente penso che valga la pena lavorare, per ovvi motivi soprattutto nell'ambito dei servizi dell'area sociosanitaria a favore delle persone in condizioni di maggiore gravità, in direzione di una ricomposizione di queste due dimensioni: quella dell'abitare e quella del diritto alla salute (proprio in riferimento all'impegnativa dichiarazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, che definisce la salute non come semplice assenza di malattia o infermità, ma come una condizione di benessere fisico, psichico e sociale).
Penso che le persone non autosufficienti con gravi patologie invalidanti abbiano diritto a vivere in case in cui sia possibile farsi carico in modo adeguato anche delle loro gravi condizioni di patologia, ma che questo non significhi rendere predominante la dimensione della presa in carico "sanitaria". Centrale è e deve rimanere la questione del benessere, della qualità della vita e della relazione con il mondo che ci circonda, con tutti i significati che questo assume quotidianamente per ogni persona con o senza disabilità.
In questo senso la componente "sanitaria" è parte integrante, tra le altre, di un approccio alla persona nella sua dimensione di complessità e multidimensionalità, e forme diverse di "presa in carico" permettono forme di risposta più articolate e individualizzate ai bisogni della popolazione con disabilità.

Per questo credo che non sia possibile parlare di RSD al di fuori di un sistema di reti territoriali per la residenzialità delle persone adulte con disabilità, cioè di una rete articolata di luoghi (servizi, appartamenti, comunità e quant'altro) per il diritto alla casa di chi non può, anche volendo, vivere da solo ed in piena autonomia.
Una rete per superare solitudini e mettere in moto sinergie, per poter sperimentare progetti e percorsi innovativi, per poter meglio gestire le (scarse) risorse disponibili.
Ma soprattutto una rete per costruire ed attivare forme diverse di risposta a partire dalle storie, dalle domande e dai progetti di vita delle persone. Per non rendere più difficile di quanto già non lo sia la vita di nessuno.
Per tutelare la possibilità di scegliere, tanto quanto gli altri cittadini, la propria casa, dove e con chi vivere. E anche la possibilità, a quanto pare oggi molto remota, di cambiare casa in futuro.

Gira, e mi sembra molto diffusa, l'idea delle RSD come di piccoli istituti: grandi numeri, interventi standardizzati, scarsa progettualità in senso socio-educativo e socio-riabilitativo, ma soprattutto ambienti chiusi su sé stessi, luoghi di segregazione e di isolamento sociale. In questo senso leggo anche l'affermazione, nell'intervento di Giovanni Merlo, Guido De Vecchi e Paolo Aliata, che le RSD "per loro natura non possono essere luoghi dove i diritti umani delle persone con disabilità possano essere promossi, protetti e garantiti".
È evidentemente un'affermazione molto netta e forte, che personalmente non condivido nella sua inappellabilità, ma credo che gli operatori che lavorano in RSD con questa idea debbano necessariamente fare i conti.
Come mai, nonostante il nostro lavoro insieme alle persone, le nostre riflessioni e i nostri progetti, gli sforzi per far crescere pratiche e prospettive diverse, pare essere così diffusa questa rappresentazione dei nostri servizi?
È una questione che ci si deve assumere e con la quale ci si deve confrontare.
Davvero le RSD sono rinchiuse in questa dimensione autoreferenziale e autarchica che, come i promotori di questa riflessione ci propongono, chiude le possibilità di incontro, scambio e confronto con il resto del mondo, e impedisce di farsi contaminare da ciò che dall'esterno porta valore e creatività?

 

Certo, ma lo diciamo da tempo, va riconosciuto che i vincoli ed i criteri individuati dalla normativa che ha istituito le RSD e che definisce i percorsi di accreditamento, ponendo come centrali le esigenze di tipo economico, lasciano in qualche modo residuale, nei fatti e al di là di generiche enunciazioni di principio, la questione della qualità dell'abitare e della tutela delle soggettività di ognuno, così come dell'inclusione sociale e della promozione dei diritti di cittadinanza.

 

Ma siamo sicuri che, pur muovendoci tra criticità, parzialità e contraddizioni, non esistano spazi di manovra per rimettere al centro queste questioni?
Davvero crediamo non sia possibile pensare e costruire servizi residenziali per persone con gravi disabilità in modo diverso, a partire dalle buone prassi che siamo in grado di realizzare e dalle idee che siamo in grado di proporre e sperimentare?
La questione della presa in carico complessiva dei bisogni della persona porta necessariamente i servizi come la RSD a richiudersi nel modello dell'istituzione totale? O piuttosto non può essere vista come approccio metodologico necessario per formulare, in modo non frammentato tra una molteplicità di diversi soggetti, ma in rete con altre agenzie e servizi del territorio, progetti individualizzati che rispondano in modo integrato ai complessi ed articolati bisogni di ogni persona (nella dimensione sociale e relazionale, assistenziale e sanitaria)?

 

A me sembra che modelli di funzionamento diversi, e sicuramente più positivi, siano già sperimentabili oggi: esistono esperienze che ci dicono che le RSD possono essere, tra gli altri servizi per la residenzialità delle persone con disabilità, quelli effettivamente in grado di offrire abitabilità a chi vive una grave condizione di non autosufficienza e di disagio cognitivo e relazionale, tutelandone la dignità ed i diritti, garantendo al tempo stesso le cure sanitarie e assistenziali necessarie.

 

Parliamone allora, magari a partire proprio da qui, da queste esperienze e da queste competenze, per ragionare di che cosa sono oggi le RSD nel panorama degli interventi per la residenzialità in Lombardia, dei modelli praticabili e dei progetti per il futuro, dei limiti e delle criticità dell'impianto normativo e dei possibili percorsi per il cambiamento. Credo anch'io sia urgente e necessario.

 

Fabrizio Magani
Direttore RSD "Luigi e Dario Villa" - Fondazione Stefania - Muggiò

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