RSD: quando anche il meglio di un servizio (qualità) può diventare nemico del bene delle persone (scelta)
Renzo Bagarolo da il suo contributo al dibattito iniziato con l’articolo apparso la settimana scorsa su Persone con Disabilità “RSD: un servizio da ripensare?”
Ho imparato in questi anni di confronto sui problemi della disabilità a riflettere partendo dalle storie delle persone prima di avventurarmi nelle analisi dei massimi sistemi, perché questo mi (ci) aiuta a non perdere mai di vista il senso dei pensieri e delle azioni.
Quindi inizio queste mie riflessioni con la storia di F. un ragazzo di 32 anni accolto in RSD nel gennaio di quest'anno (2010). F. è una persona tranquilla, espansiva, affettuosa, affetta da sindrome di Down, che fino all'inserimento in RSD viveva a casa con la madre, aveva frequentato con successo le scuole elementari e medie ed in seguito un Centro Diurno. Nel 2005 aveva interrotto la frequenza del centro per le difficoltà (riferite dalla madre) nella gestione del diabete mellito e della celiachia di cui è affetto. Negli ultimi anni ha vissuto con la madre in una situazione di "isolamento" sociale e di "impoverimento" delle relazioni, tanto che il rapporto con la stessa madre era divenuto conflittuale ed aveva spinto entrambi a pensare ad una soluzione di "vita autonoma" fuori di casa. La soluzione individuata dalla madre e accettata dal figlio è stata quella di un inserimento presso il nostro servizio RSD. Dopo l'accoglienza ed un breve periodo di valutazione si è riusciti a stabilizzare il diabete mellito ed ad organizzare una dieta personalizzata per la celiachia, dove anche la madre è coinvolta nella preparazione di alcuni piatti "speciali". F. è un ragazzo con molti interessi e abilità che è riuscito a mantenere in buona parte in RSD, esce volentieri per recarsi dalla madre ma vive gran parte della sue relazioni in residenza o all'esterno durante lo svolgimento di attività significative (mercato, cinema, oratorio, centro commerciale, ecc.).
D. invece non ha scelto di venire in RSD, a dicembre 2009 vi è stata trasferita dall'ospedale, poiché i genitori anziani difficilmente sarebbero riusciti a "gestire" al domicilio i nuovi problemi sanitari insorti dopo l'ultimo ricovero. D. è una ragazza di 39 anni affetta da tetraparesi spastica progressiva, nonostante i problemi di salute ed i frequenti ricoveri in ospedale, aveva frequentato fino al 2° anno di scuola superiore e svolgeva un lavoro di "segreteria" fino a pochi anni fa, attualmente frequentava un Centro Diurno (CDD). A ottobre 2009, ricoverata in rianimazione per una grave insufficienza respiratoria le è stata praticata la tracheostomia e "confezionata" la gastrostomia per l'alimentazione enterale, necessitava di frequenti controlli clinici. Il percorso di inserimento in RSD è stato difficile e complesso, l'instabilità clinica, i problemi sanitari e l'accettazione della nuova condizione di vita hanno messo a dura prova D., i famigliari e l'equipe della RSD. Oggi D. mangia senza necessità di stomia che le è stata rimossa, sta facendo un percorso di recupero dell'espressione verbale ed un tentativo di rimozione della tracheostomia, i problemi sanitari da gestire sono ancora importanti (deve essere broncoaspirata più volte al giorno) ma compatibili con la vita comunitaria e partecipazione alle attività di laboratorio (esce al mercato, ascolta musica, vede film, passa buona parte della giornata insieme ad altre persone), ha ripreso un'accettabile vita di relazione.
Queste sono solo le più recenti delle molteplici storie delle persone accolte in RSD al Piccolo Cottolengo Don Orione di Milano, un servizio residenziale di 72 posti letto, organizzato in 4 nuclei (per noi 4 piccole comunità diffuse) differenziati per bisogni omogenei ed in tal senso "standardizzati" per le cure ma non per la vita di ciascuna delle persone accolte.
Il mio giudizio sulle RSD, con l'esperienza di questi anni da operatore e osservatore coinvolto, è critico ma non negativo. Le criticità non sono le dimensioni o la "standardizzazione" (non ho mai creduto che "piccolo" sia garanzia di qualità ma solo di miglior controllo) ma la cultura ed i contenuti di un servizio insieme al percorso di scelta e di accesso al servizio stesso. In termini tecnici tutto questo si definisce "appropriatezza" che vuol dire la cosa giusta, alla persona giusta, al momento giusto, questo vale per le persone disabili come per tutti noi quando usufruiamo di qualunque servizio.
Quando parlo di cultura e contenuto del servizio a sostegno delle persone disabili intendo in particolare la capacità degli operatori di farsi carico della "complessità" di cui è portatore spesso la persona in condizione di disabilità, che significa problemi multipli, contemporaneamente presenti e interattivi, così che le soluzioni non sono mai né semplici, né "banali", e neppure possono essere rigide, definite a priori e/o definitive. Tratto comune alle molte forme di disabilità è la coesistenza di malattia, condizione esistenziale e svantaggio sociale che determinano specificità di condizione difficilmente riconducibili a categorie predefinite. Da ciò la mia opinione che sono "standardizzabili" le risorse che i servizi utilizzano per "garantire" livelli uniformi di prestazione e non i bisogni delle persone disabili. Un'ulteriore criticità è il percorso di accesso alla RSD, dove la valutazione del bisogno della persona disabile è fatta a "valle" e non a "monte" dell'accesso al servizio. Questa è la maggior criticità del sistema RSD così come di altri servizi per persone disabili, ossia la valutazione del sostegno erogato alla persona disabile viene fatta in funzione del servizio erogato indipendentemente dal bisogno della persona, ciò conduce indirettamente alla "standardizzazione" dei bisogni della persona disabile. Insomma molta attenzione è stata posta in questi anni nella valutazione della prestazione a garanzia della "qualità" del servizio erogato più che a sostegno della "bontà" del progetto di vita e di cure delle persone disabili. A mio parere i due approcci non sono in contrasto o competizione, non si escludono ma si completano ed in tal senso occorre lavorare per il futuro.
Ho colto l'occasione che mi è stata offerta in questo spazio di discussione per una riflessione più generale di contenuto del servizio RSD rispetto ad una trattazione più tecnica e articolata (che rimando ad altra occasione) per ribadire una volta di più che la "bontà" dei servizi la fanno prima di tutto le persone che vi operano (formate, competenti e motivate) con il sostegno di "buone" organizzazioni; la buona volontà ed i buoni propositi da soli non portano a buoni servizi, così come norme e organizzazioni costruite solo su "categorie" ideali, non sottoposte alla verifica dei bisogni reali, sono sterili e inutili. Quest'ultima affermazione mi da lo spunto per sottolineare una volta di più che i "bisogni reali" delle persone disabili sono oggi poco conosciuti ed in continua evoluzione, per cui si rende necessario quanto prima di colmare questo "gap" di conoscenza, se non vogliano continuare a decidere e discutere di e per persone disabili "ideali" a cui proporre servizi reali.
In conclusione ribadisco quali sono a mio parere i capisaldi di un buon servizio residenziale e che hanno guidato in questi anni la progettazione e realizzazione della nostra RSD, che deve essere un luogo dove vita e cure si integrano attraverso:
- Assistenza e Cure competenti (di tutte le figure professionali)
- Contesto normale e attenzione alle relazioni diffuse (ricreare la dimensione di famiglia/comunità)
- Supporto adeguato/Assistenza compensatoria
- Attenzione ai processi decisionali (affiancamento alla persona disabile e famiglia)
Di Renzo Bagarolo - Direttore Sanitario RSD Piccolo Cottolengo Don Orione - Milano
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