RSD: un servizio da ripensare?
Sono passati sette anni dalla delibera che ha istituito in Lombardia le RSD - Residenze Sanitarie Assistenziali per Persone con Disabilità, che oggi accolgono oltre 3500 persone in 77 diverse strutture. Un servizio oggi forse da ripensare.
Sette anni, forse, possono essere pochi per considerare conclusa la fase sperimentale di un nuovo servizio. Sette anni possono essere sufficienti per cogliere la tendenza, nelle diverse esperienze, dei tratti essenziali che lo caratterizzano. Sette anni sono comunque tanti per le persone che nelle RSD sono accolti, accuditi e che lì vivono, a rischio di discriminazione.
La RSD - "Residenza sanitario assistenziale per persone con disabilità" è una unità di offerta definita con la Delibera Regionale n° 12620 del 7 aprile 2003. Nella RSD sono confluite le tre precedenti tipologie di residenze per le persone con disabilità: i Centri Residenziali per Handicappati (CRH) gli Istituti Educativi Assistenziali per handicappati (IEAH). Come riportato nell'allegato A alla delibera stessa "Standard strutturali", la RSD "tra le tipologie della classe residenze sanitarie assistenziali, è quella specificatamente destinata all'area della disabilità grave". Prevede come destinatari "le persone con meno di 65 anni non assistibili a domicilio nelle condizioni di disabilità fisica, psichica, sensoriali, dipendenti da qualsiasi causa, misurate dalla schede individuali disabili"
In questi sette anni abbiamo potuto verificare che le persone che hanno bussato e bussano alla porta delle RSD sono davvero tante. La RSD è, tra le soluzioni residenziali, la tipologia di servizio che accoglie il maggior numero di persone, segno di una difficoltà da parte di servizi meno "protettivi", sia di natura sanitaria (come le comunità socio sanitaria - CSS) o esclusivamente sociale (come le comunità alloggio e gli appartamenti protetti) di divenire una proposta strutturata e diffusa su tutto il territorio regionale.
Una delle caratteristiche della RSD è che deve provvedere in toto alle esigenze della persona.
Dai nostri diversi punti di osservazione abbiamo assistito, anche nelle nuove RSD che nel frattempo sono sorte, ad un progressivo ripiegarsi verso il modello "istituto totale" che per molti anni abbiamo cercato di contrastare perché non rispettoso dei diritti delle persone con disabilità. Anche laddove encomiabili sforzi di enti gestori, coordinatori, equipe ed operatori si sono orientati a garantire le migliori condizioni di vita dei loro "ospiti", abbiamo visto prevalere il rischio di discriminazione e segregazione, come se fosse insito nella natura del modello RSD. Abbiamo incontrato realtà molto diverse da loro e sia i limiti delle migliori esperienze che i gravi problemi riscontrati nelle peggiori esperienze, ci fanno affermare che le criticità evidenziate nelle RSD lombarde siano solo in parte imputabili alla cultura degli operatori, ma che siano in qualche modo connaturate alle caratteristiche previste dalla delibera istitutiva.
Ma quali sono, secondo il nostro sguardo, questi elementi che "chiudono" le RSD?
Innanzitutto le dimensioni. Il limite dei 20 posti per unità di offerta è di fatto aggirato dalla possibilità di gestire 3 nuclei contemporaneamente e quindi di fatto a ricreare strutture con numeri fino a 60 posti. Con questi numeri garantire un buona qualità di vita ad ogni singola persona, fatta di storia, desideri, è molto difficile. La "gestione" non può che essere standardizzata, per proposte predefinite e non esito di un incontro tra un desiderio ed una possibilità, nel rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno. La delibera prevede che l'ente gestore si prenda carico completamente delle esigenze delle persone, ivi compresi gli aspetti sanitari, riabilitativi e occupazionali non prevedendo né richiedendo esplicitamente legami ed interazioni con il territorio circostante. La RSD diventa realtà autoreferenziale ed esclusiva e non inclusiva: vengono limitate le possibilità di incontro, scambio ed esperienza con il "resto" del mondo, con ciò che è "fuori confine". A questa fatica di uscire ed incontrare corrisponde una resistenza a "far entrare" e a farsi contaminare da ciò che vien da fuori, che porta valore e creatività come, ad esempio, le associazioni di volontariato.
A questa riduzione o assenza di legami nella spazialità, ne corrisponde una nella temporalità: abbiamo incontrato persone "inserite" in un servizio in cui è difficile - a volte impossibile - creare connessione tra il loro passato, il loro presente ed il loro futuro, tra come si è vissuto fino al giorno prima e come si vivrà da quel giorno in poi. È una vita in cui il passato non influisce sul presente ed un presente che non prepara un futuro.
L'esito è la proposta agli "ospiti" di una vita con luoghi, ritmi e contenuti definiti in modo standardizzato dall'organizzazione stessa: abbiamo conosciuto persone che si alzano tutte ogni giorno alla stessa ora, per fare ogni giorno le stesse attività, mangiare lo stesso cibo e coricarsi tutte alla stessa ora. Una vita che non sa di "casa", nei suoi elementi, valori, significati che sono quelli dell'abitare e validi per tutti. Una vita non sostenuta da un progetto che vede un luogo ed un tempo, non per sempre, ma in funzione della storia, delle aspirazioni, delle condizioni della persona che è protagonista e autore di quella vita.
La RSD rischia di essere un "non luogo" "per sempre". Un "non luogo" perché tutto è già dato, fermo e deciso. "Per sempre", perché non è di passaggio ed in continuità con altre situazioni residenziali possibili, da valutare in funzione della storia, gusti, condizione della persona con disabilità. "Per sempre" perché rischia di essere anche il luogo in cui la persona con disabilità passa il resto della sua vita, richiamando il destino delle RSA (Residenza Sanitario Assistenziale per Anziani) con cui la RSD condivide non solo due iniziali.
L'articolo 19 "Vita indipendente ed inclusione" della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità al punto a) sancisce l'impegno degli Stati Parti (ed il Parlamento Italiano ha approvato la convenzione il 24 febbraio 2009) a fare in modo che "le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa". Siamo certo ben lontani dal concreto riconoscimento di questo diritto per le persone con disabilità. Per questo motivo siamo disponibili e interessati a lavorare - nello spirito di progressività che la stessa Convenzione ci insegna - per migliore la situazione quando intravediamo la possibilità di sostenere percorsi di inclusione e di rispetto della dignità delle persone con disabilità. Le nostre esperienze di incontro con le RSD ci dicono che questi servizi, per loro "natura", non possono essere luoghi dove i diritti umani delle persone con disabilità possano essere promossi, protetti e garantiti.
Temiamo invece di essere di fronte ad un rischio di regressione: il progressivo innalzarsi delle aspettative di vita delle persone con disabilità sta portando alle soglie dei servizi residenziali la prima generazione di persone che, grazie all'impegno ed al lavoro delle famiglie, è sfuggita alle precoce istituzionalizzazione. Oggi queste persone rischiano di vivere, ed oggi già in parte vivono, in istituti che, certo, non sono le mega - istituzioni del novecento ma che ne riprendono, nei tratti essenziali, l'organizzazione e vedono vanificare percorsi di miglioramento ed emancipazione.
Per questi motivi e con le nostre esperienze, riteniamo che sia importante ed urgente avviare una riflessione sulla situazione complessiva delle RSD in Lombardia per verificare se e cosa sia importante modificare nell'impianto della delibera che sette anni fa le ha istituite.
Giovanni Merlo, direttore LEDHA
Guido De Vecchi, Responsabile Spazio residenzialità
Paolo Aliata, LEDHA