Le storie degli internati di ieri parlano alle nostre storie di oggi
Il saggio "Un manicomio dismesso" racconta (con rispetto e attenzione) stralci di vita di persone internate a Treviso. Un viaggio nel tempo che può aiutarci a leggere il presente
"L’ammissione degli alienati deve essere chiesta dai parenti, tutori o promotori e può esserlo da chiunque altro nello interesse degli infermi e della società".
Il libro "Un manicomio dismesso" (edizioni ETS) racconta storie di persone segregate a causa della loro disabilità.
È un saggio perché raccontando stralci di vita di alcune persone internate nel manicomio di Treviso presenta e approfondisce idee, tesi e contenuti sulla segregazione delle persone con disabilità basate su informazioni storiche, dati e soprattutto sull’analisi di documenti raccolti dall’archivio dell’ospedale psichiatrico.
È anche un libro saggio perché è scritto con saggezza, ovvero con rispetto, attenzione e delicatezza verso le persone ma anche con la giusta severità nel raccontare il contesto sociale e culturale, dentro il quale i manicomi trovavano la loro giustificazione e funzione.
È un testo che non nasconde il punto d vista degli autori ma riesce a rendere merito della complessità delle questioni che affronta e non commette l’errore di giudicare “a posteriori” (cioè con gli occhi di oggi) i comportamenti e le scelte delle persone protagoniste dei racconti. Emergono dall’oscurità parole, silenzi, sospiri, urla, soprusi, affetti, preghiere, preoccupazioni dei protagonisti principali di queste storie: le persone internate, i loro familiari ma anche degli operatori e dei direttori e persino dei parroci e delle forze dell’ordine.
Attraverso le storie ma soprattutto attraverso le parole scritte dalle persone internate nel manicomio di Treviso, siamo accompagnati in un viaggio nel tempo, alla scoperta di come le condizioni di alcune persone potevano essere definite e considerate “anormali” e di conseguenza determinate nei loro percorsi di cura e assistenza. Condizioni e scelte che erano considerate normali e accettabili, per quanto faticose e dolorose, rispondendo alla necessità di protezione e controllo delle persone stesse, dei loro familiari e vicini e della società stessa.
Una “necessità” che -non a caso- fa rima con invisibilità.
“Signor direttore, a mani giunte la prego farmi avere notizie de miei bimbi, le ho chieste e richieste, abbia pietà del mio sentimento di madre”.
Incontriamo persone che, a un certo punto della loro vita, sono uscite dalle esistenze e dalla relazione con i loro familiari più stretti; divenute non simbolicamente invisibili, private spesso di ogni possibilità di comunicazione. Dimenticate come le loro lettere, mai spedite e mai lette se non a distanza di decenni, da noi posteri.
“Carissimo papà, varia piacere di venirmi a prendere io sto bene (…) O papà non credeva che lei mi mettesse in ospedale”.
Una storia del passato ma che parla alle nostre storie di oggi: alle storie delle persone che vivono nei manicomi, più o meno nascosti, ma certo ancora attivi. Alle storie delle persone che rischiano ancora oggi di subire il destino della separazione e dell’invisibilità. Alle tentazioni, sempre presenti e ricorrenti nella nostra società che forse il miglior posto per qualcuno non è qui, oggi e per sempre, insieme a noi ma là, oggi e per sempre, insieme a quelli come lui e insieme a chi sa stare con loro.
"Un manicomio dismesso" di Maria Antonella Galanti e Mario Paolini e "Storie dal manicomio" di Francesco Paolella verranno presentati venerdì 18 novembre alle ore 19.30 al Teatro LaCucina presso l'ex Ospedale psichiatrico Paolo Pini. Clicca qui per saperne di più.