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Persone con disabilità

A cura di Ledha

Archivio notizie

03/06/2014

Contratto di ingresso, contratto rischioso

Giovanni Merlo e Laura Abet, grazie ad un contributo di Massimiliano Gioncada, verificano la “validità” del “contratto tipo” che dovrà regolare il rapporto tra l’Ente gestore e la persona con disabilità o l’anziano preso in carico.

Le nuove regole di sistema hanno inserito il "contratto tipo" che dovrà regolare il rapporto tra l'Ente gestore e la persona con disabilità o l'anziano preso in carico. Un tema rilevante, già emerso nella prima reazione del Forum Terzo Settore Lombardia e nell'analisi dell'Avv. Degani riguardo la natura privatistica del contratto. In questo secondo approfondimento verifichiamo, insieme all'Avv. Gioncada, più che il "valore" di questo contratto, la sua "validità" ovvero la sua legittimità nel caso, ad esempio, fosse oggetto di una qualunque controversia di natura legale. Un'analisi che fa emergere non pochi elementi di incertezza e di rischio che forse si potevano evitare.

 

Il primo aspetto che vorremmo verificare riguarda la legittimità della stipulazione di un contratto in cui l'asimmetria tra i contraenti è evidente: infatti la sottoscrizione del contratto vincola l'inserimento in struttura e quindi la risposta al bisogno.

Proprio la condizione soggettiva di debolezza dell'utente nel rapporto con un professionista, quale è l'ente gestore, pone più di un dubbio sull'effettività dell'eguaglianza (simmetria) dei contraenti. Al fine di arginare questa debolezza, l'ordinamento prevede una disciplina del contratto, ad esempio quella prevista nel cosiddetto "codice del consumo", che tuteli la libertà di scelta del contraente debole, la sua capacità e conoscenza dei contenuti contrattuali che va a sottoscrivere. Quando l'utente non può scegliere liberamente, la corretta "allocazione delle risorse e degli interessi" che la legge tutela, viene compromessa. In questi casi la valutazione cui può essere chiamato il giudice non avrà ad oggetto il prezzo, bensì gli effettivi diritti e obblighi del "consumatore/cliente" e, quindi, la stessa legittimità del contratto.
Quando il contraente debole è privo delle conoscenze che consentono il controllo della prestazione a lui destinata, è evidente che è l'altra parte ad assumere una posizione dominante nel contratto.
In definitiva, un'autonomia assoluta e incondizionata della persona che accede a una struttura per anziani non autosufficienti o disabili gravi non sembra essere possibile: è proprio la particolarità del rapporto struttura/ospite che non può svolgersi su un piano paritario. Inoltre, la richiesta di ricovero e l'accettazione dell'ospite nella struttura istituzionalmente deputata alla cura, impongono al personale di adempiere a quella funzione di protezione che è una delle principali componenti del contratto stesso.
Una volta firmato il contratto, l'ospite (o chi lo rappresenta) che lo ritenesse "invalido", può certamente avvalersi di vari rimedi (azione di annullamento/nullità, recesso dal contratto o anche richiesta di risarcimento), ma è ovvio che l'esito del giudizio non è certo.
Sicuramente gli obblighi di forma, informazione, trasparenza e contenuto, destinati a compensare l'asimmetria informativa e lo squilibrio della posizione di potere contrattuale in cui si trovano le parti, devono essere rispettati. Così come il rispetto dell'equilibrio economico e normativo del contratto e l'eventuale violazione delle regole di comportamento.
Ma vi è da chiedersi: è poi così vero che ciò avvenga? Lo schema contrattuale predisposto dalla Regione può supplire a tutto ciò? Ho qualche dubbio.

 

Il secondo riguarda invece la natura stessa di un rapporto privatistico a fronte dell'erogazione di un servizio pubblico previsto dai LEA, erogato sì da una struttura spesso privata ma comunque accreditata e contrattualizzata con l'A.S.L.

La D.G.R. n. X/1185-20/12/2013 (Determinazioni in ordine alla gestione del servizio socio sanitario regionale per l'esercizio 2014) al punto 3.6. dell'Allegato 4 afferma che "il contratto stipulato tra l'ente gestore e l'ospite è un contratto di diritto privato". Su questa affermazione già si potrebbe discutere molto, dato che molteplici sentenze hanno già sancito la nullità di quei contratti riconoscendo invece, nel contratto tra utente (o proprio rappresentante legale) e struttura, elementi pubblicistici significativi in forza dello stato di bisogno in cui il primo versa normalmente, e affermando chiari obblighi dell'A.S.L. e del Comune, ciascuno per la propria competenza.

La questione è comunque controversa e priva, attualmente, di uno sbocco sicuro.

Allo stesso tempo, infatti, si rinvengono altre pronunce in cui, opportunamente specificato il ruolo delle amministrazioni pubbliche interessate, il contratto "di accesso" in esame è stato ritenuto quale atto negoziale del tutto lecito e per nulla in contrasto con norme imperative, con il conseguente obbligo da parte del soggetto assistito (e/o del firmatario, a seconda dei casi) di provvedere al pagamento della retta. Ricordiamo: una retta definita come parte di costo del servizio non coperta dal "contributo residuale integrativo" dell'ente comunale, deliberato in base ai criteri previsti dal proprio regolamento.
Di fatto l'ente gestore eroga un servizio perché formalmente "autorizzato" dalla pubblica amministrazione, a cui l'ospite accede perché valutato bisognevole, sotto il profilo della propria fragilità sanitaria e sociale, da commissioni "pubbliche".
Ricondurre nell'alveo privatistico il contratto d'ingresso, così come fa la Regione, potrebbe quindi anche non rivelarsi corretto, perché tanti, e di preminente importanza, sono gli aspetti pubblicistici, diretti e indiretti, del rapporto che si va a instaurare.

Il dubbio avanzato nella domanda è quindi corretto e legittimo, almeno sino a quando le giurisdizioni superiori non si esprimeranno, in modo chiaro, a riguardo.

 

Il terzo aspetto riguarda la modalità nella determinazione della retta e la definizione degli ulteriori oneri a carico della persona.

La questione è di primaria importanza ma anche di eccezionale complessità. L'approccio da utilizzare è certamente giuridico perché tali e tante son state le pronunce giudiziali sul tema della compartecipazione, che è innegabile che tale approccio sia da considerarsi prevalente. Mi è capitato di vedere e valutare Regolamenti Comunali pieni di statuizioni etiche, sociologiche o filosofiche al limite del ridicolo, che finiscono inevitabilmente frantumate in sede giudicante.
In questo senso il recente d.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, "Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell'Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)", avrebbe potuto rappresentare un'occasione significativa per far chiarezza sul punto. Ma, a prescindere da recentissimi rumors circa l'effettiva prossima entrata in vigore del medesimo, esso rappresenta, dal mio punto di vista, un'occasione mancata, anche solo considerando alcune previsioni in esso contenute e l'impatto che detta normativa avrebbe sui bilanci delle amministrazioni comunali (le quali, invero, per il tramite dei loro rappresentanti, hanno comunque partecipato alla genesi del decreto stesso...).
Oltre a ciò, mi pare opportuno ribadire che l'aspetto sul quale si soffermano maggiormente le regole regionali, come è ovvio, riguarda la cosiddetta "quota sanitaria" dei servizi aventi natura integrata.
Detta quota è predeterminata dalla Regione a seguito dell'utilizzo di "indicatori di bisogno e fragilità" (SOSIA e Si.D.I.): una scelta che rappresenta un'applicazione sin troppo disinvolta, dell'Allegato 1C del d.P.C.M. 29 novembre 2001, che definisce i Livelli Essenziali di Assistenza in campo sociosanitario e tra cui anche l'apporto regionale alla retta complessiva.
Ma, sul punto, non posso aggiungere altro, atteso che vi è un giudizio pendente.

Tornando ai contenuti essenziali del contratto, nella suindicata D.G.R., si fa riferimento alla "Retta ed eventuale deposito cauzionale", alla "retta giornaliera a carico del contrante" e quindi alla cosiddetta "quota sociale". A detta quota si sommano "le prestazioni escluse dalla retta, con l'indicazione che le stesse sono a carico del contraente e con la relativa quantificazione dei costi a suo carico, qualora le stesse venissero richieste".
Questo è il punto in cui sorgono i problemi: la quota alberghiera, in base a quanto previsto dalla normativa, è a carico dell'utente e/o del Comune. Quest'ultimo potrà applicare il proprio regolamento solo in via subordinata, e per quanto non in contrasto con quanto indicato dalle fonti sovraordinate.
È interessante notare che proprio quest'ultimo aspetto è spesso non considerato dalle amministrazioni comunali, le quali, spero almeno non scientemente, sono convinte che disponendo il proprio Regolamento certe regole, esse siano sostanzialmente da considerarsi insormontabili e, quindi, di necessaria applicazione: peccato che con ciò dimostrino una grossolana conoscenza della teoria delle fonti.

Appare a questo punto opportuno sintetizzare i principali punti problematici:

a) dubbi sulla corretta ripartizione tra le quote "sanitaria" e "sociale";
b) possibili problemi, a livello comunale, in sede di accesso ai servizi e compartecipazione al costo da parte dell'utenza;
c) l'ufficializzazione delle "prestazioni escluse dalla retta".

L'attenzione generale rimane ovviamente concentrata sulle regole di compartecipazione alla spesa e sulla disciplina applicabile: sul punto la Regione Lombardia sta manifestando un fragoroso silenzio circa gli esiti della sperimentazione del cosiddetto Fattore Famiglia Lombardo e circa l'interpretazione dell'art. 2 co. 1 del citato d.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159 (che, come anzidetto, dovrebbe disciplinare il nuovo ISEE), rispetto al rapporto/prevalenza con la normativa regionale.
Non è quindi ancora chiaro, ad oggi, quale sarà la normativa effettivamente da applicarsi, sul tema, in Lombardia.
Al di là di questo, temo che la voce "prestazioni escluse dalla retta", nella sua clamorosa indeterminatezza, si possa prestare ad abusi, divenendo valvola di sfogo ove far confluire tutti i costi che, per un motivo o per l'altro, le pubbliche amministrazioni si dichiareranno non disponibili, piuttosto che non tenute, a pagare.
E tutto questo perché? Perché non esiste una precisa disciplina della quota alberghiera.

 

A fronte di queste considerazioni ci chiediamo quale sia il grado effettivo di legittimità del contratto, in particolare in quei passaggi che regolano gli aspetti economici prevedendo il "in caso di mancato pagamento (...) il contratto si intende risolto e l'Ospite ha l'obbligo di lasciare la RSA (..)"

Sul punto del mancato pagamento della retta, la D.G.R. si fa carico di indicare le conseguenze: in particolare "se sono applicati interessi per il ritardo e la relativa misura, decorso quale termine il contratto si intenderà risolto di diritto con il correlativo obbligo dell'ospite di lasciare la struttura, fermo restando l'obbligo per la struttura, da inserire nel contratto, di attivarsi con il comune e con l'ASL perché le dimissioni avvengano in forma assistita".
In effetti la previsione di "dimissioni assistite" pare voler fare chiarezza a fronte di una limpida posizione assunta nel 2011, in ben due occasioni, dal Consiglio di Stato. Questi, infatti, aveva stabilito che se è pur vero "che gli istituti di ricovero hanno necessità di ricevere subito il denaro delle rette", ma essi "non possono certo dimettere (gli Ospiti, n.d.r.) per mancato pagamento" della retta stessa.
Posto che ciò valorizza ancor di più la natura pubblicistica dell'intervento assistenziale prestato e del contratto che ad esso accede, ciò che lascia perplessi, anche in forza di una storica residualità assoluta di dimissioni dettate da ciò, è proprio l'esecuzione delle dimissioni assistite.
Se il mancato pagamento della quota sociale (alberghiera) fosse dettato da una controversia insorta medio tempore, sul punto, tra l'ospite e il Comune di ultima residenza, siamo proprio sicuri che detta morosità giustifichi le dimissioni del primo?
E quand'anche ciò fosse praticabile: quale soluzione si prospetta per le pubbliche amministrazioni, a quel punto?
Ben può accadere, infatti, che le necessità assistenziali dell'ospite "moroso" non siano affatto venute meno e quindi permanga la necessità del ricovero in una struttura, ma quale?
E con quale certezza una seconda, e poi una terza, e poi una quarta struttura, accoglierà un ospite già altrove dimesso per morosità?
La D.G.R. non pare offrire risposte a riguardo, con il che si può prospettare un futuro tutto sommato piuttosto incerto, con una duplice alternativa immediatamente rinvenibile: nessuno procederà alle dimissioni assistite (per timore delle possibili conseguenze, anche penali, di detta scelta) ovvero ci si ritroverà in una condizione di "paralisi istituzionale", nella quale, stante l'indisponibilità comunale a pagare la quota sociale della retta, non si sarà in grado di trovare una struttura disposta ad accollarsi una retta che in partenza già si sa resterà inevasa.
E ciò a prescindere dal fatto che, a mio avviso, non sono adeguatamente regolamentate le ipotesi di "recesso e risoluzione del contratto": il punto a ciò dedicato, infatti, lascia chiaramente intendere che le indicazioni contenute si riferiscono solo al recesso operato dall'ente gestore.
Ma che ne è delle ipotesi, ritenute legittime persino dalla Corte di Cassazione, in cui il recesso dal contratto sia operato dall'ospite o dal proprio rappresentante legale, o dal terzo (parente, coniuge, ecc.), senza che vi sia una soluzione assistenziale immediata, praticabile e adeguata, o se esso sia dettato da una palese illegittimità delle regole compartecipative comunali, cui l'ospite stesso non intende più sottostare?

Insomma, permane tanta confusione, in cui interverrà, al solito, la giurisprudenza, supplendo alle carenze istituzionali e normative, con tutti "i rischi" del caso.

 

Articolo già pubblicato su LombardiaSociale.it.

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